La Difficolta’ Teorica nell ‘Interpretare il Rapporto Soggetti-Territorio Firenze e l’area Metropolitana

In Criticism by Pierluca Birindelli

Many of the institutions that used to bring people together — a main street, a union hall, a town meeting — no longer work as before. Many people spend most of their day alone at the screen of a television or a computer. Meanwhile, social beings that we are, we are trying to retribalize (McLuhan). 

D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda… È inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra le città infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere le città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati (Calvino).

Per comprendere le linee di sviluppo degli insediamenti urbani, sino ad oggi, il problema non è stata la mancanza di profeti — sono stati numerosi in quasi tutte le epoche e i luoghi — ma piuttosto il contrario: quasi tutto ciò che è accaduto, e il suo esatto contrario, è stato profetizzato. Il vero problema è sempre stato selezionare e scegliere fra le imbarazzanti quantità di futuri suggeriti in alternativa: in questo, le società umane non hanno dimostrato grandi capacità (Simon).

Qual è il futuro della città? La nuova metropoli sarà migliore o peggiore di quella in cui siamo abituati a vivere? Credo che non lo sappia nessuno nonostante il profluvio di libri sulla città futura. Il mondo della ricerca e della filosofia sociale è pieno di imbonitori che forniscono spiegazioni fondate esclusivamente sui propri interessi e desideri, che pretendono di anticipare il futuro, del tutto incuranti dei fallimenti di passate previsioni. Con questo non voglio dire di non essere interessato, come chiunque altro, a una riflessione su ciò che ci aspetta; intendo semplicemente constatare che la realtà della società tardomoderna in cui viviamo si è dimostrata sinora più creativa di ogni fantasia (Martinotti).

 

Trasformazioni degli spazi e dei soggetti nel tempo

In questo saggio rifletteremo su alcune trasformazioni socio-culturali della città di Firenze e dell’area metropolitana che comprende Prato e Pistoia. Faremo attenzione ad alcuni tipi di rapporti (e alle loro trasformazioni) tra ambiente urbano, peri-urbano, metropolitano e gruppi di persone. Prima di addentrarci nei temi specifici, è necessario compiere un breve excursus su alcuni concetti e proposizioni teoriche utili per mettere a fuoco il rapporto esseri umani-territorio, con particolare attenzione alle trasformazioni della città contemporanea.

La città moderna — nata con la rivoluzione industriale — dalla fine del XIX secolo assume sempre più dimensione metropolitana. Percorrendo la grande quantità di studi sull’argomento, emergono tre differenti chiavi di lettura: la prima analizza la metropoli come luogo della produzione; la seconda ne sottolinea l’aspetto di oggetto di produzione; la terza tende a rappresentarla come fatto sociale globale. Il primo gruppo di riflessioni, proprie del pensiero politico-filosofico, sia liberale sia marxista, muove dalle analisi di Marx, Engels e Weber sul passaggio dalla città precapitalistica a quella capitalistica industriale. La metropoli viene letta come forma generale assunta dal processo di razionalizzazione dei rapporti economici e sociali. Il secondo filone, sviluppato in particolar modo negli studi urbanistici, pone al centro i processi di formazione (e di trasformazione) delle grandi metropoli a partire dalla fine del XIX secolo. Il terzo, infine, dapprima tipico dell’approccio sociologico, è divenuto il punto di partenza per tutti gli studi sulla forma urbana. Le intuizioni di alcuni intellettuali (Simmel e Benjamin su tutti) che, all’inizio del Novecento, colsero con lucido anticipo le caratteristiche fondamentali della realtà metropolitana, furono riprese e articolate nell’ambito degli studi sociologici con le riflessioni della scuola di Chicago negli anni Venti (Park, Burgess, McKenzie, Wirth). Ma proprio nella situazione americana, dove la forma metropolitana sembra acquistare un valore normativo per la sua diffusione nel quadro dell’esperienza urbana del XX secolo, la scienza sociale mostra i suoi ritardi e i suoi limiti più evidenti. In questi studi la città è il contesto nel quale si sviluppano alcuni processi sociali ed economici, in particolar modo quelli di mobilità sociale, analizzati con l’ausilio di tecniche quantitative. Parallelamente si sviluppa lo studio dei gruppi etnici in cui si articola il tessuto sociale della metropoli, delle loro culture e dei conflitti cui danno origine. Spazio considerevole viene infine assegnato alla storia del governo politico-amministrativo delle città. Trascurato, se non assente, resta tuttavia il rapporto tra sviluppo delle forme fisiche e vita degli uomini nelle città: il solo che può rendere conto della miseria e della ricchezza della realtà metropolitana.

Il punto di partenza di queste riflessioni sulla città è una considerazione di Simmel. Lo spazio, secondo lo studioso, è la condizione di possibilità dell’essere insieme. Le forme della società nascono a partire da questo spazio e, interagendo con esso, lo modificano e ne vengono modificate. Il rapporto individui-spazio assume nuove connotazioni nel processo di urbanizzazione conseguente a quello di industrializzazione. Più in generale, possiamo dire che il processo di modernizzazione ridefinisce le coordinate spazio-temporali degli esseri umani. Nell’epoca della modernità radicale sopraggiungono una molteplicità di cambiamenti nelle prospettive spazio-temporali adottate dagli individui. Giddens (1990) ha sintetizzato alcune trasformazioni significative con il concetto di disembedding. I rapporti sociali sono “tirati fuori” dai contesti locali di interazione e riannodati su archi spazio-temporali lontani. Questo processo conduce, in una società stretched (stirata), a una minore consapevolezza degli esseri umani sulle proprie azioni, sia rispetto alle motivazioni che le guidano, sia nei loro esiti: è il cosiddetto “esproprio dell’esperienza” (Giddens 1990).

Esproprio dell’esperienza — sviluppo ulteriore di anomia e alienazione — significa che nella biografia di molte persone il contatto diretto con eventi e situazioni capaci di collegare l’individuo alle essenziali questioni della moralità e della finitezza (del senso a tutto tondo), divengono sempre più rare e fugaci. Le condizioni di vita dell’attore che vive nell’epoca della modernità radicale dipendono dalle scelte di attori istituzionali sempre più lontani dalla polis, spesso non individuabili in un’arena né locale né nazionale. Se è vero che la società si forma dalle interazioni dirette tra persone — è il paradosso indicato da Luhmann (1984) — la società odierna non è più completamente accessibile agli esseri umani attraverso l’esperienza diretta. Il contesto locale non fornisce più ai cittadini una bussola attendibile per orientarsi nella complessità dei sistemi sociali. Gli individui provano, così, un senso di sradicamento, di homelessness (Berger 1973). Ma, sempre Giddens, fa notare che esiste un altro processo reattivo a quello di dis-embedding, vale a dire il re-embedding. L’espropriazione dell’esperienza diretta provoca le reazioni di individui e istituzioni, che cercano di riappropriarsene. Prendono pertanto corpo processi sociali, culturali e politici che, a vario titolo, propongono un ritorno al locale. Su questo torneremo tra breve.

Un altro fenomeno che interviene in maniera preponderante nella ridefinizione delle coordinate spazio-temporali degli individui è l’accresciuta mobilità. Nelle società moderne la mobilità spaziale diviene molto più intensa e diffusa tra le classi sociali. La frequenza degli spostamenti per motivi di lavoro, di studio, di consumo e fruizione (su corte e lunghe distanze) si è intensificata. Molte persone, oggigiorno, escono ed entrano nelle città per svariati motivi (non necessariamente legati al lavoro, ovvero il pendolarismo classico). Grazie al progresso tecnologico la capacità di spostamento di persone, merci e informazioni, è enormemente aumentata. Oggigiorno, parafrasando Braudel (1953), il Mediterraneo non è più largo una settimana e lungo un mese come nel Cinquecento. Lo spazio si fa più piccolo. Le possibilità offerte dalla tecnologia, tuttavia, rimangono tali. Divengono reali solamente quando le scelte politiche ed economiche le implementano, le regolano e le supportano. Il tempo necessario ad arrivare nel centro di Firenze, partendo da un qualsiasi punto dell’area metropolitana, non è così breve come potrebbe: lo spazio ridiventa grande. Il progresso tecnologico, pur aumentando la possibilità di relazioni a distanza, non ha dissolto la densità della mobilità in alcuni luoghi, le società locali.

Le società, seguendo il contributo di Simmel, possono essere definite dai tipi e dall’intensità di interazione che le caratterizzano. L’interazione può essere forte o debole. Si pensi a un esempio di debole interazione, i quartieri dormitorio: le persone risiedono in un luogo ma lavorano, consumano e si divertono altrove. Al contrario, un quartiere può essere arena di fitte relazioni sociali, associative: un vero e proprio ubi consistam. Le società locali possono essere più o meno strutturate, più o meno capaci di adattarsi ai cambiamenti del sistema sociale che le racchiude. Esse, anche se hanno un forte e condiviso tessuto culturale e valoriale, sono permeabili alle influenze della società in generale. Oggigiorno, con i processi disembedding e gli accresciuti flussi di comunicazione e mobilità appena descritti, i confini del locale divengono sempre più porosi alle infiltrazioni del globale. Anche il più piccolo e sperduto paese di montagna, attraverso le finestre aperte dai media, riceve ed è testimone dei processi culturali e sociali del globo. Meyrowitz (1985) ha dimostrato la capacità dei media tradizionali, televisione in testa, di portare l’essere umano “oltre il senso del luogo”. L’arredamento percettivo della mente umana è cambiato con l’avvento dei media elettronici, mutando al contempo percezione spaziale e temporale.  Entra in gioco l’ultra-citato fenomeno della globalizzazione.

Per globalizzazione s’intende, essenzialmente, l’intensificarsi delle connessioni e delle interdipendenze sociali a livello mondiale (Axford 1995). Le relazioni di qualsiasi tipo (economico, culturale, sociale etc.) e a qualsiasi livello (personale, istituzionale) avvengono a grande distanza.  I processi di globalizzazione economica, ad esempio, possono essere suddivisi in: internazionalizzazione dei mercati dei prodotti, dei beni e dei servizi; internazionalizzazione dei mercati finanziari; sviluppo di imprese multinazionali (Dore 1997). Un effetto di questi processi è ben descritto dall’economista Veltz (1996). Le imprese una volta erano radicate nel territorio, ora sono solamente ancorate ad esso. I vantaggi dell’essere collegati a una rete territoriale di relazioni (sociali, economiche e culturali) esistono ancora, ma il rapporto di dipendenza è meno forte. Le imprese possono “salpare” con più facilità per andare altrove. Questi processi sono sì favoriti dal progresso tecnologico, ma soprattutto dalla pressione degli interessi economici sulle istituzioni politiche per la destrutturazione dei vincoli nazionali alla regolamentazione del mercato.

D’altro canto, se lo stato nazionale è diventato troppo piccolo per certe cose, è allo stesso tempo troppo grande per altre (Bell 1972). Al processo di globalizzazione si accompagna, infatti, quello di regionalizzazione. I due ambiti da tenere presente sono il globale e il locale, con un neologismo coniato da Robertson (1985): il glocal. La globalizzazione non omogeneizza ma intensifica le relazioni tra ambiti che restano diversi: “glocalizzazione”, per l’appunto. Il peso della dimensione culturale locale non viene spazzato via dall’economia o dalla tecnologia. E anche la supposta tendenza alla costituzione di una cultura globale dovrebbe essere pensata come maggiore interconnessione di culture locali o come produzione di una cultura delocalizzata, che non è strettamente legata ad alcun territorio (Hannerz 1992). La globalizzazione di flussi culturali non costituisce, pertanto, una sorta di identità mondiale, ogni società locale è costituita da significati, valori e norme specifiche. Le specificità delle società locali hanno tuttora una grande importanza per comprendere le azioni di attori individuali e collettivi, formali e informali. Possiamo pensare alla strutturazione della società locale su due assi. Le diverse dimensioni culturali, sociali, politiche ed economiche sono in rapporto tra loro (asse orizzontale) ma allo stesso tempo sono connesse con livelli nazionali e mondiali (asse verticale). Se le società locali con le proprie disposizioni, atteggiamenti e culture, hanno un nucleo di significatività indiscutibile, i confini tra società locali sono, tuttavia, sempre più difficili da definire. È stato il problema incontrato nel tracciare i confini dell’area metropolitana Firenze-Prato-Pistoia. Anche se questa era inferiore alla somma delle tre province, la maggior parte delle analisi — per la disponibilità di dati statistici — ha come unità di analisi la provincia. È chiaro che le relazioni economiche, sociali e culturali trapassano questi steccati statistici e non corrispondono ai confini politico-amministrativi. In ogni caso, il blocco del processo di individuazione statistica di queste nuove aree, in attesa di una definizione politico-amministrativa, sospesa a sua volta da contrapposti interessi elettorali, crea problema sia allo studioso sia a chi governa il territorio (Martinotti 1993).

Concludo questo paragrafo con alcune osservazioni tratte dal breve saggio di Simmel “Metropoli e personalità” (1903), nel quale l’autore individua alcuni caratteri essenziali delle metropoli. I tratti della personalità di un ipotetico individuo medio dell’area metropolitana paiono discostarsi da quelli individuati da Simmel per i cittadini delle metropoli di inizio secolo. Sono caratteristiche rintracciabili solo in un ristretto numero di individui — un’élite contraddistinta da un alto capitale economico, sociale e culturale — che vivono nel centro di Firenze.  Simmel confronta le interazioni sociali che si verificano nella metropoli con quelle che avvengono in una piccola città. Dal confronto emergono due differenze sostanziali fra metropoli e piccole città. Nella metropoli gli abitanti ricevono un ricco insieme di stimoli che evolvono e cambiano rapidamente, un susseguirsi di impressioni ed immagini che affollano la loro mente. Nella piccola città il ritmo è lento e meno ricco. Nella metropoli si sviluppa un’intellettualità sofisticata, un  distacco e una razionalità che, secondo Simmel, sono tipiche dell’uomo metropolitano.

L’essere umano risponde intellettualmente — con la testa non col cuore — alla sovrastimolazione sensoriale della metropoli. Per preservare la propria soggettività l’individuo della metropoli sviluppa una sorta di distacco per l’Altro e l’abitudine ad instaurare rapporti formali. È l’atteggiamento blasé: l’individuo metropolitano ostenta indifferenza e scetticismo. La metropoli è anche il luogo della società in cui, secondo Simmel, l’uomo gode della maggior libertà possibile. L’uomo metropolitano è libero rispetto al controllo sociale che limita chi risiede nella piccola città. L’altra faccia della maggior libertà è il sentimento di solitudine.
Ora, a me pare che queste caratteristiche, nell’area metropolitana, siano proprie — e solamente in parte — di un piccolo numero di persone che abitano nel centro storico di Firenze, e che l’atteggiamento blasé si sviluppi, essenzialmente, a causa del turismo. Gli abitanti della restante porzione dell’area metropolitana sono difficilmente collocabili nel tratteggio metropolitano simmeliano, e la loro eventuale sovrastimolazione è frutto di esperienze per lo più mediate. Il tessuto culturale, valoriale, sociale, gli atteggiamenti caratteristici delle popolazioni locali sono dimensioni largamente sconosciute. Esse sono talvolta desunte da dati statistici o indagini compiute su temi e gruppi di popolazione parziali e puntuali. Al giorno d’oggi manca una ricerca capace di individuare compiutamente le caratteristiche socio-culturali di fondo delle varie comunità che compongono l’area metropolitana Firenze-Prato-Pistoia, o anche una sola di esse. Nei rapporti di ricerca esaminati non ho rintracciato studi di comunità degni di nota. Manca una riflessione sul tema indicato nel titolo del paragrafo: le trasformazioni culturali e identitarie di gruppi di soggetti in un determinato spazio sociale. Questo è il primo risultato dell’indagine: un vuoto cognitivo.

Processi culturali e figure identitarie

I processi culturali, gli scambi simbolici contestualizzati, ovvero situati nelle forme fisiche urbane, sono oggetti di studio essenziali per comprendere il rapporto individuo-città (territorio). È in particolare il punto di vista antropologico che mette a fuoco i processi di costruzione e organizzazione dei significati della città, intesa come cittadini che interagiscono nei luoghi. L’antropologia culturale arricchisce le analisi sociologiche centrate sulla condizione urbana nei suoi sviluppi storici. Hannerz (1980), ad esempio, pensa alla città come al luogo della serendipity, ossia uno spazio dove si può trovare una cosa mentre se ne cerca un’altra: un’intuizione felice che aiuta a comprendere la mobilità urbana casuale, apparentemente immotivata e, quindi, difficile da racchiudere in una categoria sociologica classica. Il processo culturale urbano prende corpo quando la città si apre verso l’esterno e verso l’interno. Nell’apertura esterna la città amplifica i propri orizzonti, alimentandosi della diversità culturale che è in grado di ricevere dall’esterno e, così facendo, produce innovazione. L’apertura interna si compie sia attraverso reti di comunicazione personale sia attraverso luoghi specifici: i caffé viennesi, i cabaret di Berlino, gli adda e dab di Calcutta, i bar di San Francisco. L’apertura culturale avviene anche attraverso oggetti antesignani di ciò che oggigiorno sono i luoghi virtuali di internet: i giornali,  i feuilleton, le riviste, le radio, le televisioni. In ogni caso si tratta di strumenti o arene del fluire culturale.

Marc Augé (1992) individua dei luoghi e dei processi per un certo verso opposti: i non-luoghi della surmodernità. La surmodernità vive di non-luoghi, spazi che non creano identità, non costruiscono relazioni, non si integrano con il passato. Sono gli spazi della circolazione veloce: i supermarket e le autostrade, i bancomat e le sale d’aspetto degli aeroporti, i parcheggi multipiano e le stazioni di servizio. Questi luoghi privi di memoria sono riempiti da un presente vissuto attimo per attimo, con il ritmo sincopato proprio delle pratiche di consumo. In questi spazi non organici — realizzazione ulteriore dei timori di smembramento sociale adombrati da Durkheim (1893) — alberga il sentimento di solitudine. Sono luoghi del passaggio non dell’esperienza, se non quella sempre uguale a se stessa di prassi, di schemi di azione codificati. I non-luoghi, questa importante metafora dell’oggi, nell’antropologia del quotidiano di Augé danno forma alla più emblematica esteriorizzazione emotiva del moderno: lo spaesamento. Tra i luoghi ricchi di identità e “noità” e i non-luoghi sprovvisti di una base culturale comune e condivisa, possiamo mettere a fuoco spazi intermedi: le “terre di mezzo”. Sono i nuovi luoghi creati dalla conurbazione. L’attenzione ai pieni e ai vuoti degli insediamenti urbani e ai significati conferiti a tali spazi dalle persone che li vivono è un buon punto di vista per comprendere le trasformazioni di un territorio. Capire perché le persone si spostano da un punto all’altro di un area metropolitana è l’altra chiave di lettura opportuna.

Soffermandoci sulle motivazioni dei transiti ci accorgiamo che la mobilità delle persone nell’area metropolitana non ha a che fare esclusivamente con il lavoro, ci si sposta anche per altri motivi: per consumare, per fruire, per visitare. Ma, più in generale, è il vissuto delle persone che si compone, in maniera oggi più articolata e cangiante, di tempo occupato e tempo libero. È questa la ragione fondamentale che mi ha indotto a rintracciare alcuni elementi utili a ricostruire — parzialmente s’intende, ci sarebbe bisogno di un’indagine ad hoc — una rappresentazione dell’utilizzo del tempo libero dei cittadini dell’area metropolitana. Per comprendere ciò che succede in un territorio in termini di mobilità spaziale, è utile soffermarsi su dimensioni ludico-culturali che conducono a eventuali tipi di stili di vita.
Per citare un aspetto della mobilità di norma sottovalutato, possiamo volgere lo sguardo dall’altro lato dell’Oceano Atlantico. Gli esperti di traffico affermano che negli Stati Uniti almeno il 40% degli spostamenti che avvengono durante le ore di punta del pendolarismo, non sono legati al lavoro: si tratta di genitori che accompagnano i figli a scuola, di viste dal medico, o semplicemente di spostamenti senza una meta pianificata con precisione e messa a fuoco solo durante lo spostamento (Martinotti 1993). Anche da un’indagine locale, tesa a comprendere i motivi degli spostamenti all’interno dell’area metropolitana Firenze-Prato-Pistoia (Birindelli 2005), risulta che un’alta percentuale degli non ha il lavoro come motivazione principale. Sommando il tempo libero, lo studio e i motivi personali vediamo che il 63% degli spostamenti abituali verso il centro di Firenze non hanno a che fare col lavoro.

L’attenzione del ricercatore, per comprendere le trasformazioni in atto, deve spostarsi dalla realtà fisica a quella sociale, sforzandosi di creare nuove categorie. Studiando le aree metropolitane, il sociologo è costretto a coniare nuove figure identitarie, che percorrono il territorio per ragioni diverse da quelle classiche. Gli ambienti urbani e periurbani non possono essere più rappresentati  — neppure nella realtà toscana che ha una bassissima mobilità geografica — solamente attraverso chi vi risiede o chi vi lavora. Tra queste due tipi di individui (e di spostamenti) ve ne sono altri: turista, city user,  businessman metropolitano. È pertanto necessario integrare le tradizionali categorie dell’analisi urbana basate sui canoni dell’ecologia sociale. Esse identificano gli abitanti con la totalità della popolazione urbana. Seguendo questa prospettiva non si capirebbe perché Firenze più si spopola più è congestionata. Il processo di de-urbanizzazione deve essere problematizzato mettendo a fuoco altri usi delle città. Sono persone che non risiedono nei centri urbani e che, a differenza dei pendolari, non vi lavorano in modo stabile, ma vi si recano esclusivamente per consumare, come i city user oppure (come i businessmen metropolitani) per brevi permanenze di affari che forniscono però l’occasione per consumi non di rado quantitativamente e qualitativamente consistenti. Queste nuove popolazioni sono al tempo stesso il prodotto e una delle componenti principali della trasformazione metropolitana, ma sfuggono alla osservazione sistematica con gli strumenti tradizionali dell’analisi urbana, tuttora puntati in larga misura sugli abitanti e in piccola parte sui lavoratori e pendolari, cioè sulle popolazioni che caratterizzano la città tradizionale e la metropoli di prima generazione. Tuttavia la presenza di queste nuove popolazioni è percepibile sul piano fisico, economico e politico e introduce una variabile che non abbiamo ancora imparato a valutare nella giusta misura, ma che sta cambiando profondamente la morfologia sociale di quelle che suggerisco di chiamare metropoli di seconda generazione” (Martinotti 1993, 16).

Ora volgiamo lo sguardo alle terre di mezzo. La maggioranza della popolazione del pianeta risiede, dai primi anni del duemila, nelle aree urbane o periurbane. Fra le due, sono le aree di confine a divenire sempre più popolate. Sono territori in rapida e caotica trasformazione: i cambiamenti fisici (strutturali, visibili a occhio nudo o con altri strumenti) non corrispondono a quelli umani, culturali, sociali. La perfetta rappresentazione della realtà fisica non può rivelarci quella della società urbana. Le lenti per decifrare quest’ultima devono essere intellettuali, interpretative, capaci di comprendere i simboli, i simulacri, i comportamenti e le norme che prendono vita nel brulichio vitale della foresta metropolitana. Quest’arena è raffigurabile come un testo in divenire, il cui indice analitico è alquanto abbozzato, le citazioni vanno un po’ a casaccio e il numero dei capitoli s’ingrandisce a vista d’occhio: una musica senza spartito, pezzi melodici che si alternano a rumori e vere e proprie stecche. I “direttori di orchestra” che debbono presiedere e governare i cambiamenti si stanno attrezzando, e commissionano indagini conoscitive dei territori amministrati; la necessità di miscelare esperienza e scienza si fa sempre più pressante per conoscere zone che spesso non si danno, non rivelano automaticamente  le loro trasformazione attraverso i numeri delle statistiche.  È per questa ragione che le scienze urbanologiche si propongono sempre più di catturare le ombre della città, i fenomeni nascosti o, quantomeno, non direttamente, fisicamente osservabili, conteggiabili.

Le trasformazioni del territorio, soprattutto quelle imputabili alla tecnologia, sono state copiose e hanno inciso nel rapporto tra dimensioni fisiche e sociali. Le nuove relazioni spazio-temporali tra soggetti e macchine hanno costituito un nuovo mondo (Ash e Thrift 2002). Ma tra le pieghe del nuovo i vecchi insediamenti urbani non si sono dissolti, anzi. È compito dello studioso cercare di individuare continuità e rotture fra tradizione e modernità, scorgendo fenomeni antichi all’interno di forme nuove. Il fenomeno della de-urbanizzazione o controurbnizzazione, ad esempio, deve essere problematizzato. La concentrazione della popolazione nelle città dei paesi sviluppati pare diminuire. Alcuni osservatori hanno frettolosamente letto questo fenomeno come una sorta di ritorno alla campagna. Confrontando i dati dei censimenti 1981-1991, è vero che i comuni con più di 50.000 abitanti diminuiscono la loro popolazione e quelli al di sotto la aumentano, ma fra questi ultimi sono i piccoli comuni collocati all’interno di aree metropolitane a crescere di più. Non è né una fuga dalla città e neppure una controurbanizzazione, bensì l’allargamento e la diffusione di aree metropolitane.

I territori che si aprono di là dalle mura di Firenze e ancor oltre non sono ancora completamente afferrabili. Lo spazio che si stende fuori dal nucleo storico delle città europee viene chiamato in molti modi: area metropolitana, hinterland, banlieu, metropolitan fringe. Termini che connotano residualmente queste aree: spazi derivati, marginali, tutto ciò che si trova di là dalle mura. Definire qualcosa per ciò che non è — il centro — è sintomo di difficoltà interpretativa. Questi territori sfuggono, non sono messi chiaramente a fuoco dalle scienze sociali. La conurbazione (il territorio edificato con continuità) offusca la chiarezza dei confini amministrativi di città, province e comuni. L’area metropolitana Firenze-Prato-Pistoia è, pertanto, priva di un’identità amministrativa. Se prendiamo, ad esempio, una serie di indicatori statistici — a partire dai più semplici, come quelli demografici o il numero di imprese — ci troveremo in un selva di numeri che si riferiscono a cose diverse (regioni, province, comuni, frazioni) e, ancor più opaco, rilevati con strumenti differenti (censimenti, indagini campionarie etc.) che non permettono una successiva comparazione. Questi territori non paiono rivelati neppure dal giornalismo di inchiesta o investigativo che, slegato dalla scienza positivistica, ha più libertà di manovra intellettuale e può fornire spunti per costruire interpretazioni di largo respiro. I grandi reportage non vengono commissionati o non vi sono giornalisti capaci di portarli avanti. Anche lo sguardo dello scrittore, del letterato come dello studioso di spessore, potrebbe —  come è sempre successo nel passato — aprire squarci e indicare direzioni. Ma, facendo letteralmente “mente locale”, negli ultimi decenni tali scritti non sono apparsi. Per quanto riguarda Prato, ad esempio, le ultime riflessioni taglienti sono state compiute da Becattini (1979) — studioso capace di miscelare economia e sociologia, antropologia e storia — nel celebre saggio sul distretto industriale. Dopodiché la gran mole di ricerche, di osservatori che contano i numeri senza interpretarli, non hanno prodotto granché. Hanno, forse, offerto agli amministratori del territorio qualche base statistica per puntellare riflessioni e interventi che, però, alla fine, dovevano portare avanti affidandosi alla propria competenza, esperienza e creatività (se ne avevano). L’evidenza scientifica, poi, non era tale da permettere di effettuare scelte politiche nette o, quantomeno, di arginare il processo di stallo dovuto allo scontro di interessi locali e politici contrapposti.

La difficoltà a comprendere cosa stia accadendo al di fuori delle città si riversa anche dentro le mura. Lo studio del territorio periurbano è di vitale importanza per capire cosa succeda nelle città: non si comprende l’uno mettendo l’altro tra parentesi. Nel caso di un’area metropolitana multinucleare, come quella Firenze-Prato-Pistoia, è necessario indugiare nelle terre di mezzo. Non per tracciare confini ma per gettare lo sguardo da una parte o dall’altra senza essere, per così dire, troppo coinvolti nelle appartenenze territoriali1.  In Italia le terre di mezzo sono apparentemente difficili da scorgere nel fitto insediamento urbano tradizionale, dove città piccole, o anche piccole frazioni, si sottraggono, possedendo identità, all’indistinto di un’orbita metropolitana. Ma affinando lo sguardo — e neanche più di tanto — è possibile scoprire luoghi di mezzo: aeroporti, shopping malls, quartieri residenziali, infrastrutture per tempo libero, ma anche semplici agglutinazioni di insediamenti del più vario tipo attorno a strade, autostrade, ferrovie, stazioni e altri servizi. Sono i non-luoghi di una nuova vita sociale che si afferma prescindendo dai campanili, dalle tradizioni e dalle sagre. Luoghi che nascono laddove la gente passa, si ferma per poco e consuma. I grandi parcheggi, luoghi di scambio veloce tra un mezzo di locomozione e l’altro, sono il trait d’union fisico che accomuna questi nuovi spazi. Si arriva, si parcheggia velocemente, si consuma, si lavora; il tutto senza i problemi, i costi sociali e lo spreco di tempo tipici dell’accesso a un centro storico.

Ora, per chi ha una minima esperienza di questo territorio metropolitano, non è necessario attivare uno sguardo raffinato: basta guardare fuori dal finestrino. Percorrendo l’autostrada Firenze-Mare, la spina dorsale che regge la mobilità delle tre province, il guidatore non potrà non accorgersi di questi nuovi luoghi, che così poco hanno a che vedere con le vecchie città: I Gigli, UCI, Ikea, etc.

Il periurbano è, quindi, il luogo delle trasformazioni per eccellenza. È in queste aree che avviene la redistribuzione di nuove unità produttive, delle nuove attività di servizio, dei nuovi spazi pubblici che generano la ridefinizione delle strutture urbane tout court. Dalle trasformazioni in atto nelle terre di mezzo si possono individuare nuovi scenari residenziali che non hanno necessariamente a che fare con le comunità storiche locali. Insediamenti che nascono da nuovi modi di vivere il territorio e da inedite strategie di attraversamento (o di non-attraversamento) del medesimo. Certi insediamenti, infatti, sono progettati per evitare i costi sociali ed economici dello spostamento e tendono a essere autosufficienti, riducendo il più possibile la mobilità esterna. Questi villaggi moderni contengono supermercati, cinema, biblioteche, bar, centri sportivi, servizi. Studiare come le persone si muovono, facendo attenzione a ciò che accade nelle terre di mezzo, è utile a cogliere l’eventuale passaggio da “spazio dei luoghi allo spazio dei flussi” (Castells 1996). Non stiamo immaginando l’area metropolitana come una sorta di Los Angeles nostrana (processo di Losangelisation, in gergo). Il mai realizzato progetto di costruzione di una linea metropolitana andrebbe, semmai, nella direzione opposta. Tenere il più vicino possibile punti diversi del territorio, attraverso le rotaie, ci fa pensare a Londra piuttosto che alla metropoli americana.

Per cogliere le linee di sviluppo degli insediamenti urbani è necessario, pertanto, cercare di comprendere le strategie di gestione di tempo e spazio delle popolazioni che vi risiedono, lavorano e consumano. Stanno emergendo, infatti, nuovi fenomeni. Ad esempio il tempo di viaggio giornaliero in un’area metropolitana è sì proporzionale allo status, ma in un modo simmetricamente inverso a quello della vecchia metropoli industriale o di prima generazione (Martinotti 1993). Oggigiorno, più alto è lo status sociale e meno ci si muove nella quotidianità.

Le nuove tecnologie comunicative stanno sì incidendo profondamente nelle abitudini di mobilità, ma non al punto di stravolgerle. La rappresentazione di un individuo moderno che lavora nella sua casa, connesso a un computer, azzerando la mobilità legata al tempo occupato, si è rivelata falsa. La cosiddetta società immateriale è ben lungi dall’aver espulso la concretezza fisica delle cose, delle macchine e degli uomini. La comunicazione, pertanto, non sostituisce i trasporti. Non possiamo preconizzare uno stravolgimento delle abitudini di mobilità come l’accantonamento dell’automobile, un conseguente abbattimento di sprechi energetici e inquinamento, grazie a internet. Le indagini condotte a livello internazionale dimostrano che più il territorio metropolitano è sviluppato in estensione e densità, più il consumo di energia e l’inquinamento aumentano. Il consumo energetico procapite di carburante di un campione di grandi città americane è di 58.541 Mj (Megajoules), con punte di 74.510 a Houston, contro i 13.280 Mj delle città europee (Martinotti 1993).

Vivere nell’area metropolitana Firenze-Prato-Pistoia tra statistiche, culture e opinioni

Gli strumenti conoscitivi paiono spuntati. Molte analisi delle trasformazioni territoriali si fermano su due sponde identiche: da una parte si arrestano alla caoticità e inafferabilità dei cambiamenti, dall’altra si rassicurano attraverso la semplificazione eccessiva. Due approdi apparentemente opposti ma sostanzialmente identici dal punto di vista della conoscenza: poca. A questo stato di cose può porre rimedio una classe dirigente locale illuminata, che dà la spinta inziale e governa un circolo virtuoso composto da ricerche condotte con strumenti adeguati, studiosi capaci anzitutto di porre buone domande e, con tanto lavoro, fornire alcune utili risposte. Ho sottolineato quanto sia necessario iniziare a muoversi in altre direzioni rispetto alle tradizionali direttive di ricerca. La relazione cittadini-territorio-cultura deve essere analizzata da più angolature: qualità della vita, uso del tempo libero, senso di appartenenza e soprattutto apertura culturale.

È opportuno chiarire quanto il termine cultura sia polisemantico. Nelle scienze sociali si fa spesso cadere in questo contenitore una grande varietà di elementi, giungendo talvolta a una sostanziale sovrapposizione semantica con il termine società. In questi casi diminuisce la potenzialità euristica della costellazione di significati legati al termine cultura. Anche nel linguaggio comune il termine cultura viene utilizzato in maniera frequente per descrivere una pluralità di temi e ambiti (cultura femminile, cultura giovanile, cultura tecnologica, cultura alta2 etc.). Non è compito di questo  saggio cimentarsi in un chiarimento o in una rassegna dell’utilizzo del concetto di cultura. Possiamo segnalare solo alcuni utilizzi del termine, sottolineando tre fondamentali accezioni di cultura: cultura colta, cultura antropologica, cultura sociologica.“Colta” è l’attribuzione di significato più tradizionale del termine cultura; essa è acquisita attraverso l’apprendimento, che è il carattere più definitorio degli esseri umani. Tramite la cultura colta si impara, si socializza. Essa è altamente istituzionalizzata (scuola, università) e rimane perlopiù patrimonio dell’upper class.

La cultura antropologica si riferisce ai modi di vita, alla costruzione di modelli culturali rituali, alle disposizioni fondamentali degli esseri umani nei confronti della realtà, agli atteggiamenti fondanti il tessuto sociale di un comunità o di un gruppo di individui. Un esempio può essere la cultura giovanile degli anni ’60. La cultura sociologica, oltre a essere trasversale rispetto a quella colta e antropologica, si concentra sulle agenzie che producono cultura. È un approccio che si sovrappone alle altre due concezioni, ma si occupa esplicitamente della produzione di cultura, concentrandosi sulle istituzioni deputate alla  produzione e divulgazione di cultura. La cultura in senso sociologico si sofferma su tutti gli enti che producono e diffondono beni simbolici di cultura, siano essi istituzioni, agenzie, imprese.  La sociologia della cultura, pertanto, studia i mass-media, giacché sono divenuti agenti della socializzazione che affiancano la famiglia e la scuola.Altri concetti essenziali sono i tre capitali fondamentali per un individuo, con i quali si determina il proprio posto all’interno della stratificazione sociale: capitale economico, capitale sociale, capitale culturale (Bourdieu 1979). Il capitale economico è quello strettamente finanziario, dato dalla disponibilità di denaro o di altri beni di valore. È il capitale che favorisce i percorsi di ascesa sociale di gruppi di individui che, spesso, raggiunte determinate posizioni, cercano di  trovare legittimazione della ricchezza acquistando altri capitali. Il capitale sociale è il più intangibile, ma non per questo meno importante. Esso è composto dalle relazioni sociali. Il capitale sociale, non essendo necessariamente ascritto, può essere lo strumento per collocarsi agli snodi di una società segmentata, con l’obiettivo di crearsi zone di potere e di messa in comunicazione. Il capitale sociale può essere il ponte per acquisire il capitale finanziario. Il capitale culturale viene trasmesso dall’istruzione, quindi tramite la scuola, l’università. Prima dell’allargamento del campo culturale era rigidamente ascritto, legato al censo ed allo status sociale. Dopo l’avvento della sfera pubblica borghese è divenuto più accessibile, con la cultura di massa ancor più. Il capitale culturale si ottiene attraverso il capitale economico, o, in alcuni casi, può essere trampolino di lancio per conquistare disponibilità finanziarie.

L’avvento della sfera pubblica borghese, i processi di industrializzazione e di urbanizzazione sono temi fondativi della sociologia. I sociologi classici (Weber, Simmel, Durkheim) avevano adottato un approccio culturologico analizzando il passaggio dalle società tradizionali a quelle moderne. Lo studio dei valori, delle norme, delle credenze, dei simboli — sia come rappresentazioni collettive sia individuali — di un gruppo situato di individui (culture) e le loro trasformazioni nel tempo era ritenuto un varco essenziale per la comprensione complessiva della società e dell’agire sociale. L’antropologia, la sociologia e, in misura minore, la psicologia sono le discipline che utilizzano l’approccio culturologico nelle loro ricerche. All’interno devi vari paradigmi talvolta viene maggiormente evidenziata la direzione dell’influenza che va dalla società alla cultura o, in altri casi, dalla cultura alla società. Gli altri lati che compongono il “Diamante Culturale” (Griswold 1997) sono i soggetti (privati e pubblici) che producono cultura, e i riceventi. Anche in questo caso alcuni approcci sottolineano la preminenza dei produttori su riceventi (i cittadini), altri tratteggiano i riceventi come soggetti con un grado relativo di autonomia: individui capaci di muoversi tra i diversi oggetti culturali prodotti, non restandone schiacciati. Questa linea interpretativa è difficile da intraprendere se si adotta un approccio statistico tradizionale.

Il paradigma implicito sul quale si basa l’analisi di dati statistici può essere sintetizzato con l’esempio seguente. Se, da 1 a 1000, nella provincia Atlantide l’indice dato dalla somma di furti, omicidi, atti vandalici è 900, mentre nella provincia Zenobia  scende a 450, si deduce che i cittadini di Zenobia si sentono sicuri, mentre quelli di Atlantide vivono in stato d’assedio. Questa è una semplificazione accettabile. Ciò nonostante esistono degli strumenti per raffinarla, o complicarla, secondo i punti di vista. Su tutti: chiederlo ai cittadini. Domandare ai residenti di Atlantide e Zenobia quanto si sentano sicuri/insicuri è utile a rilevare la percezione soggettiva di sicurezza/insicurezza. Secondo il teorema di Thomas, una situazione definita dagli attori come reale, diventa reale nelle sue conseguenze. È la profezia che si autoadempie (Merton 1949). Se la gente crede che gli italiani siano tutti mafiosi, indipendentemente dai dati ufficiali, questo avrà degli effetti reali. È importante incrociare statistiche ufficiali e opinioni dei cittadini rilevate con survey (i questionari non dovrebbero essere somministrati solo per fini elettorali o di marketing). Oltre ad essere due dimensioni ugualmente importanti per l’implementazione di politiche pubbliche, c’è da dire che talvolta è difficile sapere chi ha ragione tra statistica e opinione. Facciamo un altro esempio con Atlantide e Zenobia.  Nella statisticamente felice e ridente provincia di Zenobia c’è un alto tasso di associazionismo. Da ciò il sociologo deduce che gli abitanti di Zenobia partecipano alla vita civile, esistono reti di protezione, etc. Ad Atlantide è il contrario. La domanda è: come viene calcolato il tasso di associazionismo e di partecipazione? Poniamo che sia dato dal numero di associazioni sul totale della popolazione. Zenobia conta il triplo delle associazioni di Atlantide. Ma se le associazioni di Zenobia avessero in media solo tre iscritti ciascuna e quelle di Atlantide trenta? Avremmo scoperto che, in effetti, si partecipa di più ad Atlantide. Tuttavia, approfondendo questa indagine immaginaria, notiamo che mediamente i trenta iscritti per associazione di Atlantide fanno ben poche attività. Ad esempio, per le associazioni di volontariato e assistenza, ogni affiliato concede solo un’ora al mese del suo tempo. A Zenobia ogni volontario mette a disposizione dell’associazione 10 ore alla settimana. Lo scenario si è nuovamente ribaltato.

Gli scenari sociologici si complicherebbero ulteriormente tematizzando e andando a vedere cosa fanno le varie associazioni. Possiamo dedurre linearmente che tante associazioni “Amici della caccia” o “Buongustai del tartufo” costituiscano terreno fertile alla partecipazione sociale e civile di un territorio? Direi di no. In due parole i numeri vanno interpretati criticamente, complicandoci la vita se necessario. Questa strada, d’altro canto, se non è portata avanti con buon senso può condurre all’indistinto, al niente va bene o alla eccessiva relativizzazione. Ecco, il rischio opposto consiste nel cadere in un comodo relativismo. Un pensiero forte e fruttuoso è fatto sia di complicazioni sia di semplificazioni; un movimento della riflessione, questo, auspicabile per evitare di arrestarsi sulla comoda porta del relativismo e dell’indecifrabilità. Nell’assenza di un tentativo di analisi critica, chi rappresenta il mondo sociale in maniera univoca e piatta e chi lo racconta in maniera diametralmente opposta come difficile da comprendere si trovano uniti da un atteggiamento conoscitivo: semplicismo e pressappochismo.

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About the Author

Pierluca Birindelli

Pierluca Birindelli, Ph.D, teaches Sociology of Culture and Cross Cultural communication at Gonzaga University in Florence and is visiting professor at the University of Helsinki, where he gives the course Identity and Culture. Qualitative Methods for the International Research Master´s in Social Sciences. Birindelli has published several articles and two books on the passage from youth to adulthood (Clicca su te stesso, 2006; I giovani italiani tra famiglia e scuola, 2010), a monograph about self-identity in late modernity (Sé: concetti e pratiche, 2008) and another book about cultural influences upon politics and economy (Il futuro del distretto, 2010).