La Stewardship e le radici della crisi ecologica

In Criticism by Brian G. Henning

Nel 1967, lo storico Lynn White Jr. aveva pubblicato sulla rivista «Science» un controverso saggio che esplorava “Le radici storiche della nostra crisi ecologica”. La sua tesi era che le radici della crisi, una crisi evidente perfino allora, andavano più a fondo rispetto all’evoluzione della scienza e della tecnologia moderna. L’ambizione baconiana di padroneggiare e soggiogare violentemente la natura fu possibile solo in virtù di una sottesa visione antropocentrica del mondo che rendeva vive tali possibilità. Quella visione del mondo, sostiene White, si può far risalire a una specifica forma dominante di cristianesimo occidentale che «non solo impostava un dualismo tra uomo e natura, ma insisteva anche sul fatto che fosse volontà di Dio che l’uomo dovesse sfruttare la natura per i propri fini.»[1] Il cristianesimo occidentale biforcava la natura, collocando gli umani al di sopra del resto del creato. Il mondo non è che un palcoscenico su cui l’umanità rappresenta la propria ricerca di redenzione. «A dispetto di Copernico, tutto il cosmo ruota intorno al nostro piccolo globo. A dispetto di Darwin non siamo, in cuor nostro, parte del processo naturale. Siamo superiori alla natura e la disprezziamo, pronti a usarla per ogni nostro piccolo capriccio.»[2] «Soprattutto nella sua forma occidentale, il cristianesimo è la religione più antropocentrica che il mondo abbia mai visto.» [3]

L’opinione di White è che quella sottesa visione del mondo abbia creato le condizioni necessarie a un violento abuso della natura. Da notare che questa tesi non è strumentale a dimostrare l’insensibilità dei cristiani. L’idea di White, piuttosto, è che la fondamentale visione cristiana del mondo è adesso inscindibile dalla forma mentis occidentale e si è radicata a prescindere da qualunque credo religioso. «Sia la nostra scienza attuale sia la nostra tecnologia attuale sono talmente permeate dell’arroganza dell’ortodossia cristiana verso della natura al punto che non ci si può aspettare da loro alcuna soluzione per la nostra crisi ecologica. Dato che le radici dei nostri problemi sono ampiamente religiose, anche il rimedio dovrà essere essenzialmente religioso, che accettiamo o meno questa definizione.»[4] Una volta offerta questa diagnosi, ciò che White intende dimostrare è che in assenza di una visione del mondo più adeguata la crisi ecologica non avrà soluzione. «Ciò che facciamo sull’ecologia dipende dalle nostre idee sul rapporto uomo-natura. Più scienza e più tecnologia non ci faranno uscire dall’attuale crisi ecologica finché non troveremo una religione nuova, o ripenseremo quella vecchia.»[5]

È importante dire che l’obiettivo di White non è affermare che il cristianesimo propone una visione del mondo intrinsecamente fallace che occorre abbandonare, egli suggerisce piuttosto che all’interno della stessa tradizione vi sono risorse per un «ripensamento.» Nello specifico, White suggerisce che il cristianesimo occidentale potrebbe superare la propria narrazione dualistica se attribuisse uno status maggiore alle idee di San Francesco.

Forse dovremmo considerare il più grande radicale nella storia del cristianesimo dai tempi di Gesù Cristo: San Francesco d’Assisi. Il maggior miracolo di San Francesco è di non essere finito al rogo come molti dei suoi seguaci di sinistra… La chiave per la comprensione di Francesco è la sua fede nella virtù dell’umiltà – non solo per l’individuo, ma per l’uomo come specie animale. Francesco tentò di spodestare l’uomo dalla sua tirannia sul creato e stabilì una democrazia tra tutte le creature di Dio. Per lui la formica non è più una predica per gli oziosi, le fiamme un segno della spinta dell’anima verso l’unione con Dio; adesso sono sorella formica e fratello fuoco, che lodano il Creatore a modo loro, così come fratello uomo lo fa a modo suo.[6]

Dobbiamo ripensare e ri-sentire la nostra natura e il nostro destino. Il senso profondamente religioso, ma eretico, dei francescani primitivi per l’autonomia spirituale di tutte le parti della natura potrebbe indicare una direzione. Io propongo Francesco come santo patrono degli ecologisti.[7]

Il mio obiettivo in questo breve saggio non è tanto difendere la controversa tesi di White[8], ma usarla come contesto per apprezzare il significato della nuova enciclica di Papa Francesco, Laudato si’. Se la consideriamo sullo sfondo della tesi di White, verranno alla luce certe sue caratteristiche salienti.

Prima di tutto è interessante notare come molto di ciò che White ha auspicato in termini di ripensamento del cristianesimo si è realizzato nella seconda metà del secolo. Per esempio, anche se non è assolutamente attribuibile a White, nel 1979 papa Giovanni Paolo II ha effettivamente nominato San Francesco santo patrono dell’ecologia. Al di là di questo atto simbolico, la discussione esplicita della chiesa cattolica sulla crisi ecologica come questione morale che richiede seria considerazione da parte di tutte le persone di fede inizia nel 1990 con il discorso in occasione della giornata per la pace nel mondo: «La crisi ecologica: una responsabilità comune».

Si avverte ai nostri giorni la crescente consapevolezza che la pace mondiale sia minacciata, oltre che dalla corsa agli armamenti, dai conflitti regionali e dalle ingiustizie tuttora esistenti nei popoli e tra le nazioni, anche dalla mancanza del dovuto rispetto per la natura, dal disordinato sfruttamento delle sue risorse e dal progressivo deterioramento della qualità della vita. Tale situazione genera un senso di precarietà e di insicurezza, che a sua volta favorisce forme di egoismo collettivo, di accaparramento e di prevaricazione.[9]

Con questo toccante pronunciamento, Giovanni Paolo II inizia a gettare le fondamenta per coniugare giustizia sociale e giustizia ambientale, riconoscendo non solo che i danni all’ambiente influiscono a dismisura sui poveri, ma che la giustizia richiede un’equa relazione non solo tra gli umani e il loro creatore, ma necessariamente anche tra gli umani e il creato. Inoltre ammette che per una coerente «etica della vita» si deve portare rispetto non solo alla vita umana, ma anche a quella non umana. Infine, come White, Giovanni Paolo sostiene che la crisi ecologica non è un problema da «gestire» utilizzando più scienza e tecnologia, ma ritiene in ultima analisi che si tratti di «un problema morale.» In tal modo il pontefice sembra condividere l’idea che la crisi ecologica sia la manifestazione di una visione del mondo inadeguata e che finché non (e se non) adottiamo una più consona concezione di noi stessi e del nostro rapporto col mondo naturale, la crisi non potrà che peggiorare. Questa presa di posizione ha fatto grandi passi verso quel «ripensamento» auspicato da White. Ha trasformato il dominio umano sulla terra da una dispotica tirannia a una benevola gestione. Gli uomini, uniche creature fatte a immagine di dio, hanno adesso più responsabilità che privilegi.

Benché abbiano rappresentato una netta e auspicabile svolta dottrinaria, queste dichiarazioni non sono servite a riconoscere che il mondo non umano ha un valore intrinseco e che merita rispetto in quanto tale. Qualcuno all’interno della chiesa cattolica temeva che il riconoscimento di un valore intrinseco al creato potesse favorire un mal indirizzato culto panteistico della natura. L’obbligo a essere bravi amministratori del creato era in ultima analisi qualcosa che si doveva al creatore e all’umanità presente e futura e mai alle piante agli animali e all’ecosistema per sé. I doveri verso il non umano rimanevano indiretti. In questo modo si può dire che la chiesa cattolica era passata dall’antropocentrismo autodistruttivo di cui parlava White a un antropocentrismo più illuminato. Qualunque ne sia stata la ragione, la posizione della Chiesa era cambiata radicalmente senza però abbandonare la dicotomia che, a detta di White, stava alla base della crisi ecologica. Malgrado la nomina di Francesco a santo patrono dell’ecologia, la sua democrazia delle creature era ancora ignorata a vantaggio della scala naturae tomistica di stampo aristotelico. Nonostante il nuovo riconoscimento della nostra dipendenza verso il mondo naturale e il bisogno di rispettare la sua «integrità», gli esseri umani sono ancora collocati a parte e in alto rispetto al mondo naturale.

La riluttanza a riconoscere il valore intrinseco di tutte le creature, umane e non umane, è stata finalmente vinta da Papa Francesco. Nella sua nuova enciclica, Laudato si’, egli ammette coerentemente e perfino enfaticamente che gli organismi non umani devono essere presi in considerazione «non solo per determinare quale sia il loro uso ragionevole, ma perché possiedono un valore intrinseco indipendente da tale uso. Come ogni organismo è buono e mirabile in se stesso per il fatto di essere una creatura di Dio, lo stesso accade con l’insieme armonico di organismi in uno spazio determinato, che funziona come un sistema» (140). In realtà egli non soltanto riconosce che gli organismi individuali hanno un valore intrinseco, ma che hanno un valore anche i sistemi di cui essi fanno parte. In questa enciclica, per la prima volta, Francesco ripudia inequivocabilmente l’antropocentrismo e riconosce che il mondo naturale ha un suo valore indipendente dalla sua utilità per gli esseri umani e che merita di essere rispettato e protetto non solo per il bene degli uomini presenti e futuri, ma anche per il bene della natura stessa. I doveri verso i non umani sono sia diretti sia indiretti. Comunque Francesco si affretta a notare che tutto questo non deve essere inteso a sottintendere un «biocentrismo» livellatore.

Un antropocentrismo deviato non deve necessariamente cedere il passo a un “biocentrismo”, perché ciò implicherebbe introdurre un nuovo squilibrio, che non solo non risolverà i problemi, bensì ne aggiungerà altri. Non si può esigere da parte dell’essere umano un impegno verso il mondo, se non si riconoscono e non si valorizzano al tempo stesso le sue peculiari capacità di conoscenza, volontà, libertà e responsabilità. (118)

Qui cogliamo Francesco nello sforzo di chiarire che se si rifiuta l’antropocentrismo non è per «cedere» al biocentrismo o, come avrebbe potuto aggiungere, all’ecocentrismo. Questa posizione sottintende l’idea sbagliata che il «biocentrismo» comporti necessariamente un’assiologia piatta ed egualitaria in cui tutti gli esseri viventi hanno lo stesso valore. Gli studiosi di etica ambientale si sforzano di mantenere distinti la considerabilità morale e lo status morale. Il biocentrismo è semplicemente la visione secondo cui se un essere è vivente, allora è intrinsecamente valido e merita considerazione morale per se stesso. Se tutte le creature viventi sono uguali come valore intrinseco – se hanno cioè lo stesso status morale – è una questione collegata ma distinta, a cui diversi pensatori danno risposte diverse. In altre parole, il bersaglio di Francesco sembrano essere certe forme di biocentrismo egualitario che sostengono che tutti gli esseri viventi hanno valore e lo hanno in egual misura. Ci sono comunque molte varietà non egualitarie di biocentrismo che affermano che tutti gli esseri viventi sono uguali per il fatto di avere valore, ma non tutti hanno un valore uguale.

Per esempio l’etica del “rispetto per la vita” del premio Nobel Albert Schweitzer è forse una delle più eloquenti, anche se la meno sistematicamente sviluppata, tra le varianti del biocentrismo. «Pertanto l’etica consiste in questo: io provo il bisogno di mettere in pratica lo stesso rispetto per la vita verso tutte le volontà di vivere, come verso la mia. Ne deriva che ho già dentro il necessario principio di moralità fondamentale. È bene conservare e aver cura della vita; è male distruggerla e tenerla in scacco.»[10] A volte Schweitzer sembra aderire a una forma egualitaria di biocentrismo, sostenendo che: «la vita come tale è sacra. Egli [la persona etica] non distrugge alcun cristallo di ghiaccio che scintilla al sole, non lacera foglie dagli alberi, non recide fiori e sta attento a non schiacciare alcun insetto mentre cammina.» Nemmeno questa visione, tuttavia, implica un egualitarismo assiologico livellatore. Schweitzer riconosce che la «volontà di vivere» è in qualche modo «in contrasto con se stessa. Un’esistenza sopravvive a discapito di un’altra di cui non conosce ancora nulla.» Il nostro obbligo morale, sostiene Schweitzer, è quello di evitare di fare danni alla vita «senza sentirci costretti a farlo per necessità.» Quello che forse in Schweitzer viene lasciato ambiguo è chiarito nell’opera di autorevoli sostenitori del biocentrismo, come l’eticista ambientale Gary Varner che difende esplicitamente una forma di «individualismo biocentrico» fondato su una gerarchia assiologica.[11] Il biocentrismo è del tutto compatibile con una visione gerarchica dei valori.

Sebbene il termine non venga mai menzionato da Papa Francesco, un’analisi simile si potrebbe applicare anche all’«ecocentrismo», teoria che va oltre al biocentrismo e riconosce il valore intrinseco non solo dei singoli esseri viventi, ma anche dei sistemi di cui essi fanno parte. In effetti, benché non usi quel termine, Francesco sembra abbracciare una forma di ecocentrismo: «Come ogni organismo è buono e mirabile in sé stesso per il fatto di essere una creatura di Dio, lo stesso accade con l’insieme armonico di organismi in uno spazio determinato, che funziona come un sistema» (140). Ci sono in realtà alcuni ecocentristi, come ad esempio Sessions e Devall, che sostengono un «egualitarismo ecologico» in cui tutti gli esseri hanno «in linea di principio» eguale valore.[12] Ce ne sono tuttavia altri, come Holmes Rolston, che difendono una forma gerarchizzata di ecocentrismo pronta ad ammettere differenze nella scala valoriale.[13] Forse la più articolata forma di ecocentrismo non egualitario è rintracciabile nell’opera di Alfred North Whitehead, che riconosce che tutto quanto è nell’universo ha valore per sé, per gli altri e per il tutto.[14] Dall’ambito della nostra diretta considerazione morale non si esclude nulla. Tutto ha un proprio valore intrinseco, ma ci sono molti gradi e livelli di valore raggiunti dai differenti esseri e dai sistemi di cui essi fanno parte. Molto del mio stesso lavoro professionale è stato dedicato all’esplorazione degli sviluppi di un’etica fondata su tale visione del mondo.[15]

Insisto su questa discussione su biocentrismo ed ecocentrismo al fine di dimostrare che, malgrado l’impressione di Papa Francesco, non esiste incompatibilità tra un coerente biocentrismo, o perfino un ecocentrismo e il riconoscimento che gli uomini hanno «peculiari capacità di conoscenza, volontà, libertà e responsabilità» (118). Il ripudio dell’antropocentrismo non comporta un livellamento che manca di riconoscere le reali differenze tra esseri diversi. Un biocentrismo (o un ecocentrismo) genuino non solo è compatibile con l’esortazione a liberarci di un arrogante, ingiustificato antropocentrismo, ma è al tempo stesso una risorsa.

Nel ripudiare esplicitamente l’antropocentrismo e nel riconoscere il valore intrinseco a un mondo che merita rispetto e protezione per sé, Papa Francesco ha di fatto risposto alla più fondamentale tra le preoccupazioni di White e cioè che: «la crisi ecologica continuerà a peggiorare finché non respingeremo l’assioma cristiano secondo cui la natura non ha altra ragione di esistere che per servire l’uomo.»[16] Francesco è molto chiaro nel rifiutare l’insidioso dualismo su cui si fondava il nostro ingiustificato antropocentrismo. «La natura non può essere considerata come qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo inclusi in essa, siamo parte di essa e ne siamo compenetrati» (139). In effetti, Papa Francesco ammette esplicitamente che, come sosteneva White, troppo spesso i cristiani hanno male interpretato la natura del loro “dominio.”

Anche se è vero che qualche volta i cristiani hanno interpretato le Scritture in modo non corretto, oggi dobbiamo rifiutare con forza che dal fatto di essere creati a immagine di Dio e dal mandato di soggiogare la terra si possa dedurre un dominio assoluto sulle altre creature. (67)

Una presentazione inadeguata dell’antropologia cristiana ha finito per promuovere una concezione errata della relazione dell’essere umano con il mondo. Molte volte è stato trasmesso un sogno prometeico di dominio sul mondo che ha provocato l’impressione che la cura della natura sia cosa da deboli. Invece l’interpretazione corretta del concetto dell’essere umano come signore dell’universo è quella di intenderlo come amministratore responsabile. (116)

L’esplicita adesione di Papa Francesco a una stewardship etica è uno sviluppo da cogliere con favore. Tuttavia temo che il concetto di amministrazione, estrapolato dal contesto dell’enciclica, si presti ad errate interpretazioni. La metafora dell’amministratore sfida giustamente la nozione che la terra sia “nostra” e che ne possiamo disporre secondo i nostri padronali capricci. Un amministratore agisce sempre per conto di qualcun altro.[17] In quanto amministratori ci viene affidata la responsabilità della terra, non il suo possesso. Siamo amministratori per conto del creatore e per conto delle generazioni future. Se visto in quest’ottica, si tratta di un radicale progresso. Tuttavia nella metafora esiste un pericolo latente. Quello di assumere troppo spesso le sembianze di un nuovo ingiustificato antropocentrismo. Un antropocentrismo benevolo, magari, ma altrettanto infondato. Il biologo evoluzionista Stephen J. Gould sottolinea bene la natura potenzialmente problematica della metafora della stewardship

Tali idee [sulla stewardship], per quanto ben intenzionate, hanno le loro radici nel vecchio peccato d’orgoglio e nell’esagerata importanza di sé. Siamo una tra milioni di specie viventi e non siamo amministratori di nulla. In base a quale principio dovremmo, pur nati un microsecondo geologico fa, assumere la responsabilità degli affari di un mondo che ha quattro miliardi e mezzo di anni, che brulica di vita e che si è evoluto e diversificato per almeno tre quarti di quell’enorme lasso temporale?

Se non si fa attenzione, la stewardship non diventa altro che un’estensione di quel «sogno prometeico di dominio sul mondo» (116), un modo di peccare di superbia e presunzione. La natura non ha bisogno di una benevola manutenzione che assicuri il suo corretto funzionamento; non ha bisogno di riparazioni. Possiede una propria integrale unità che, se lasciata libera di prosperare, funziona alla perfezione.

Per fortuna, se lo consideriamo nel contesto dell’enciclica, diventa chiaro che il concetto di amministrazione di Papa Francesco è più lungimirante. La stewardship non ha niente a che fare col movimento di sostenibilità, che troppo spesso si propone solo di rendere sostenibile lo stile di vita di un consumatore rubando ai poveri e non riuscendo neppure a soddisfare chi è abbastanza fortunato da avere le risorse per permetterselo. Anche se occorrono forme di tecnologia meno inquinanti, la crisi economica non è un problema che si risolve attraverso lo sviluppo di nuove tecnologie. La crisi ecologica è, di base, un problema etico e spirituale «che ci invita a cercare soluzioni non solo nella tecnica, ma anche in un cambiamento dell’essere umano, perché altrimenti affronteremmo soltanto i sintomi» (9).

Il passaggio a un’etica di stewardship correttamente intesa comporta sempre di più che gli esseri umani ripensino se stessi e il loro posto nel mondo naturale. Detto in altre parole, siamo chiamati a essere amministratori di noi stessi, non della natura. Non siamo responsabili della natura e i nostri tentativi di farlo apportano di solito più danni che benefici. Il concetto di amministrazione di Papa Francesco è molto più radicale di quanto appaia a prima vista. «Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso» (194). Diventare bravi amministratori significa sapere innanzitutto amministrare noi stessi, ideare modi di vivere che siano in armonia e rispettosi delle altre belle forme di vita sul pianeta. Il grande sacerdote cattolico e storico culturale Thomas Berry ha descritto questo compito come la “Grande Opera” di questa generazione.

La Grande Opera, adesso che entriamo in un nuovo millennio, è attuare la transizione da un periodo di umana devastazione del pianeta, a un periodo in cui gli uomini siano presenti verso il pianeta in un rapporto di reciproco beneficio.[18]

Che le radici della crisi ecologica si possano far risalire al cristianesimo occidentale (come sostiene Lynn White) o alla modernità (come teorizza Papa Francesco), i due sembrano concordare che la crisi ecologica sia in ultima analisi un problema morale e spirituale che si può solo affrontare abbracciando una visione del mondo che ripudia un ingiustificato e arrogante antropocentrismo che ci separa dalla natura e che ci rende sprezzanti verso di essa. Dobbiamo riconoscere che, per quanto noi umani siamo realmente straordinari nelle nostre capacità, siamo anche fondamentalmente parte e prodotto del mondo naturale e che, in quanto intrinsecamente bella e di valore, ogni creatura merita rispetto e apprezzamento. L’enciclica di Papa Francesco è uno squillo di tromba che ci invita a intraprendere la Grande Opera che abbiamo davanti.

Se noi ci accostiamo alla natura e all’ambiente senza questa apertura allo stupore e alla meraviglia, se non parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza nella nostra relazione con il mondo, i nostri atteggiamenti saranno quelli del dominatore, del consumatore o del mero sfruttatore delle risorse naturali, incapace di porre un limite ai suoi interessi immediati. Viceversa, se noi ci sentiamo intimamente uniti a tutto ciò che esiste, la sobrietà e la cura scaturiranno in maniera spontanea. La povertà e l’austerità di san Francesco non erano un ascetismo solamente esteriore, ma qualcosa di più radicale: una rinuncia a fare della realtà un mero oggetto di uso e di dominio. (11)

Titolo originale: Stewardship and the Roots of the Ecological Crisis
Traduzione Andrea Sirotti

Note

  1. Lynn White, Jr. Le radici storiche della nostra crisi ecologica. In «Science» 155, (1967): 1205.
  2. Ibid., 1206.
  3. Ibid., 1205.
  4. Ibid., 1207.
  5. Ibid., 1206.
  6. Ibid.
  7. Ibid., 1207.
  8. Per le analisi critiche della tesi di White, consultare Robin Attfield, “Social History, Religion, and Technology: An Interdisciplinary Investigation into Lynn White’s ‘Roots’,” Environmental Ethics 31, (2009) e Elspeth Whitney, “Lynn White, Ecotheology, and History,” Environmentl Ethics 15, no. 2 (1993): 151-69.
  9. Giovanni Paolo II, «La crisi ecologica: una responsabilità comune,» 1 Gennaio 1990 http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/messages/peace/documents/hf_jp-ii_mes_08121990_xxiv-world-day-for-peace.html.
  10. Albert Schweitzer, “L’etica del rispetto per la vita” trad. John Naish http://www.animal-rights-library.com/texts-c/schweitzer01.htm
  11. Vedi Gary Varner, In Nature’s Interest? Interests, Animal Rights, and Environmental Ethics (Oxford: Oxford University Press, 1998).
  12. Bill Devall e George Sessions, Deep Ecology: Living as if Nature Mattered (Salt Lake City: Gibbs Smith, 1985).
  13. Holmes Rolston III, Environmental Ethics: Duties to and Values in the Natural World (Philadelphia: Temple, 1988).
  14. Alfred North Whitehead, Modes of Thought (New York: Free Press, 1938), 111.
  15. Il mio tentativo più sistematico di sviluppare una filosofia morale ispirata a Whitehead è in Brian G. Henning, The Ethics of Creativity: Beauty, Morality, and Nature in a Processive Cosmos (Pittsburg, University of Pittsburgh Press, 2005). Altre articolazioni dello stesso lavoro si trovano in Brian G. Henning, Riders in the Storm: Ethics in an Age of Climate Change (Winona, MN: Anselm Academic, 2015), Brian G. Henning, Beyond Mechanism: Putting Life Back Into Biology, a cura di Brian G. Henning e Adam C. Scarfe (Lanham, MD: Lexington Books, 2013); Brian G. Henning, “From Despot to Steward: The Greening of Catholic Social Teaching, “ in The Heart of Catholic Social Teaching: its Origins and Contemporary Significance, a cura di David Matzko McCarthy (Grand Rapids, MI: Brazos Press, 2009), 183-94; e Brian G. Henning, “Trusting in the ‘Efficacy of Beauty’: A Kalocentric Approach to Moral Philosophy,” Ethics & the Environment 14.1 (2009): 101-28.
  16. White, 1207.
  17. Per una discussione più approfondita di questo punto, vedi il capitolo 5 di Brian G. Henning, Riders in the Storm: Ethics in an Age of Climate Change (Winona, MN: Anselm Academic, 2015). Vedi anche, Robin Attfield, “Trustees of the Planet,” in Ethic of the Global Environment (West Lafayette, Indiana: Purdue University Press, 1999), 44-61.
  18. Thomas Berry, The Great Work: Our Way Into the Future (New York: Broadway Books, 2000), 3.
About the Author

Brian G. Henning

Brian G. Henning is Professor of Philosophy and Environmental Studies at Gonzaga University in Spokane, WA and is the Executive Editor of the Edinburgh Critical Edition of the Complete Works of Alfred North Whitehead. His research includes thirty articles or anthology chapters, three books, and four co-edited volumes. His 2005 book, The Ethics of Creativity, won the Findlay Book Prize from the Metaphysical Society of America. His most recent book is Riders in the Storm: Ethics in an Age of Climate Change. connect.gonzaga.edu/henning