Inhabitants 20

Dall’Antropocene all’Ecozoico: La filosofia e il cambiamento climatico globale

In Criticism by Brian G. Henning

Inhabitants 20

Photo Credit: Andrea Buzzichelli

Ho recentemente avuto occasione di scrivere un saggio sui discorsi tenuti dai presidenti dell’Associazione Filosofica Americana (APA) negli anni Trenta (1931–1940) (Henning 2015a). Districandomi fra gli svariati temi filosofici esposti in una trentina di discorsi, non ho potuto fare a meno di pensare anche agli eventi drammatici che accadevano in quei dieci anni tumultuosi. Dopotutto, agli inizi degli anni Trenta, il mondo stava sprofondando nella Grande Depressione, mentre negli Stati Uniti un buon quarto di chi aveva un impiego si ritrovava disoccupato. E verso la fine del decennio, l’insorgere di virulenti movimenti nazionalisti in Germania, Italia e Giappone avrebbe provocato la Seconda Guerra Mondiale. Nel giustapporre i discorsi dei presidenti dell’APA a queste crisi, ciò che è stato detto è altrettanto rivelatore di ciò che è stato taciuto.

D’altro canto, le prolusioni tenute agli inizi del decennio — ivi comprese quelle di insigni filosofi come Alfred North Whitehead (1931–1932) e C. I. Lewis (1933–1934) — non accennano neppure di passaggio alla crisi economica globale.[1] Le code per il pane presenti nei loro quotidiani dovevano averli certo colpiti tantissimo, eppure, a quanto pare, lo stato del capitalismo globale non era degno di una discussione filosofica. L’assordante silenzio circa la Grande Depressione contrasta nettamente con molti dei discorsi tenuti negli ultimi anni del decennio, che si appuntavano spesso sulle crescenti minacce geopolitiche.[2] Ad esempio nel suo discorso presidenziale del 1937–1938, “La Storia come lotta per i valori sociali,” J. A. Leighton sostiene con coraggio la responsabilità morale dei filosofi a impegnarsi, in quanto filosofi, per la difesa della democrazia:

La democrazia emerge in una delle crisi secolari più rilevanti nella storia della cultura. Su di noi insegnanti ricade, credo, una rilevante quota dell’onere della democrazia. Se la confusione continua e qualche sobillatore, avido di potere, sale al potere, potremmo finire tutti in galera o al cimitero… Se i filosofi continuano ad accontentarsi di perseguire l’abitudine gufesca di riflettere solo nella dolce luce crepuscolare della speculazione astratta, ciò che li aspetta è una lunga e terribile nottata. La civiltà è sospesa sulla lama di un rasoio sopra un abisso. Dire che noi americani non abbiamo responsabilità e libertà di scelta in questa ora di decisioni è un parere da codardi o disperati. … Credo che voi, io e noi tutti abbiamo di fronte una sfida: la scelta se sottostare zelanti alla tirannia controllata da forze demoniache o marciare con volontà risoluta verso l’alba di una terra fatta di persone degne e unite in fratellanza — un mondo reso libero.

Molti dei discorsi della seconda metà degli anni Trenta, analogamente, rivelano che la lotta tra democrazia e tirannia era tanto una guerra di idee quanto di eserciti in conflitto. E i presidenti dell’APA si appellavano agli altri filosofi perché prendessero posizione.[3]

La disparità nelle risposte filosofiche rispetto alle crisi gemelle degli anni Trenta mi hanno portato a riflettere sui discorsi filosofici di più recenti presidenti APA alla luce delle crisi attuali. La più grande minaccia esistenziale del ventunesimo secolo non è più la crisi economica o l’avanzare della tirannia —anche se entrambi i problemi rimangono molto reali — quanto piuttosto il sollevarsi inesorabile dei mari alimentato dal riscaldamento globale.[4] Il cambiamento climatico globale antropogenico è una sfida con la cui maestosità e potenza l’umanità non si è mai confrontata.[5] Mentre stiamo deragliando verso il sesto evento di estinzione di massa, a farne le spese non sarà una nazione o un’ideologia, e neppure il benessere economico, ma il destino stesso della nostra specie e di milioni di altre specie insieme alle quali ci siamo evoluti. Che tipo di reazioni filosofiche a questa crisi troviamo nelle prolusioni presidenziali dell’APA?

A giudicare dal contenuto dei loro discorsi filosofici, parrebbe che i nuovi presidenti dell’APA non siano più preoccupati, filosoficamente, dei cambiamenti climatici di quanto non lo fossero Whitehead e Lewis nei confronti della Grande Depressione. In effetti, se l’unica fonte fosse il contenuto di queste prolusioni, sarebbe quasi impossibile ricavarne la consapevolezza che la terra si trovi in mezzo a una crisi ecologica al rallentatore. Fra i trentasei discorsi tenuti a partire dal 2003, neppure un presidente fa un accenno meno che fuggevole al riscaldamento globale o al cambiamento climatico globale.[6] Sebbene, come dimostra questo stesso volume, i filosofi non siano ciechi alle sue implicazioni, a quanto pare troppo pochi di loro considerano il cambiamento climatico rilevante per il loro lavoro filosofico, o il loro lavoro rilevante per il cambiamento climatico. L’osservazione di Stephen Gardiner del 2004 secondo cui “pochissimi filosofi morali hanno scritto sul cambiamento climatico” rimane tenacemente vera.[7]

Il duplice scopo di questo breve saggio è, prima di tutto, quello di aggiungere la mia voce a chi esorta i filosofi a farsi più carico dell’importante compito concettuale di capire e reagire al cambiamento climatico globale antropogenico e, in secondo luogo, quello di assumermi in prima persona la sfida, ritenendo che uno dei molti ruoli di un filosofo sia la critica a quello che ritengo essere il sotteso quadro concettuale[8] che ha fatto precipitare, e che perpetua, la crisi ecologica. Quanto al primo obiettivo, inizio col considerare quello che Eileen Crist chiama “teoria dell’Antropocene,” poi prendo in esame il quadro alternativo offerto da Thomas Berry. Insieme a Berry, concludo che la sfida del cambiamento climatico globale si può raccogliere solo evitando la transizione nell’“Epoca dell’Antropocene” e favorendo invece quella all’“Era Ecozoica” in cui gli umani assumono il loro ruolo all’interno, e non al disopra, della comunità vitale di creature intrinsecamente di valore.

1. LA TEORIA DELL’ANTROPOCENE

Nel corso di quest’anno (2016) l’Unione Internazionale di Scienze Geologiche (IUGS) annuncerà se dopo circa 12.000 anni l’epoca dell’Olocene del periodo Quaternario si è conclusa anzitempo e se è iniziato l’Antropocene.[9] Non fosse stato per l’impatto cumulativo delle attività umane, il relativamente temperato Olocene che definisce la “norma” per le nostre specie, sarebbe forse andato avanti per altri 50.000 anni.[10] Invece, sostiene l’argomentazione, l’impatto collettivo dell’attività umana ha ormai raggiunto un ordine di grandezza geologico, aprendo la strada a un’epoca completamente nuova. “Benvenuti nell’Antropocene,” titola la popolare rivista The Economist:

La Terra è qualcosa di enorme; se la dividessimo in parti uguali per ognuno dei sette miliardi dei suoi abitanti, ne toccherebbero quasi mille miliardi di tonnellate a testa. Pensare che le attività di un’entità così vasta possano essere alterate per sempre da una specie che ne ha percorso la superficie per meno dell’1% dell’1% (0.0001) della sua storia sembra a prima vista assurdo. Ma non lo è. Gli umani sono diventati una forza della natura nel rimodulare il pianeta su scala geologica — ma a una velocità ben più alta di quella geologica.

Un singolo progetto ingegneristico, la miniera della Syncrude nelle sabbie bituminose di Athabasca, comporta la movimentazione di trenta miliardi di tonnellate di terra — il doppio della quantità di sedimenti che in un anno scorre via in tutti i fiumi del mondo. Quello stesso flusso di sedimenti, nel frattempo, si sta assottigliando; quasi cinquantamila grandi dighe hanno nel corso dell’ultimo mezzo secolo ridotto il flusso di circa un quinto. È una delle ragioni per cui i delta della terra, abitati da centinaia di milioni di persone, si stanno erodendo più velocemente di quanto possano essere reintegrati.[11]

Seguendo Eileen Crist, m’interessa prendere in considerazione “le oscure ripercussioni del dare il nostro nome a un’epoca” (2013, 129). La tesi di Crist è che il concetto di “Antropocene” non è una descrizione neutrale, scientifica, “ma piuttosto una riflessione e un avvallo della censurabile visione del mondo antropocentrica che ha generato in primo luogo ‘l’Antropocene’ con tutte le sue minacciose emergenze” (129–30). Concordo con Crist nel sostenere che il cambiamento climatico globale e le crisi ecologiche che ne stanno derivando sono il risultato di una visione del mondo e di una narrazione antropocentrica che per millenni ha sancito il dominio umano su un mondo spogliato di tutto il suo (intrinseco) valore.

Piuttosto che sfidare la narrazione del dominio umano e il controllo su ogni aspetto della natura, la teoria dell’Antropocene efficacemente la rafforza con un linguaggio apparentemente neutro e oggettivo. “Il lessico secondo cui stiamo ‘cambiando il mondo’— dipingendosi abilmente come imparziale e cancellando le tracce normative nello stesso momento in cui vengono pronunciate — assicura il proprio terreno ontologico mettendo a tacere gli sfollati, uccisi, schiavizzati, le cui terre d’origine sono state assimilate e le cui vite sono, in effetti, alterate per sempre; cancellate persino” (Crist 2013, 133). Parte dell’effetto del linguaggio eufemistico della teoria dell’Antropocene è presentare la minaccia del cambiamento climatico globale non come il prevedibile risultato di una visione del mondo assiologicamente e metafisicamente errata, ma come una sfida ambientale da “gestire” attraverso l’applicazione di forme sempre più aggressive di tecnologia, se necessario usando la geoingegneria per modificare il clima stesso.[12] Parrebbe che gran parte del popolare movimento sulla sostenibilità abbia lo scopo di proteggere, non di sfidare, il nostro modello di felicità basato sul consumo.[13]

Come fa correttamente notare Dale Jamieson, un approccio gestionale alle crisi ecologiche globali come il cambiamento climatico antropogenico è votato al fallimento perché non coglie la natura del problema e, di conseguenza, propone soluzioni inadeguate. “La scienza ci ha messo in guardia su un problema, ma il problema riguarda anche i nostri valori. Ha a che fare con come dovremmo vivere, e come gli umani dovrebbero relazionarsi l’uno con l’altro e col resto della natura. Non sono solo problemi di scienza, ma anche di etica e di politica” (Jamieson 2010, 142). Il riscaldamento globale è fondamentalmente un problema morale nel senso che riguarda il modo in cui concepiamo noi stessi e il nostro rapporto con la natura; riguarda la natura dei valori; e riguarda le idee di progresso e di benessere dell’umanità. Non basta internalizzare economicamente i costi delle attività ad alta emissione di gas serra (come bruciare combustibili fossili o mangiare animali nutriti con cereali) o creare forme di energia e trasporti a bassa emissione di carbonio, anche se questi cambiamenti sono certamente necessari. In ultima analisi “gli approcci gestionali son destinati a fallire… [perché] le domande a cui possono rispondere non sono le più importanti e profonde. Le questioni sollevate dal cambiamento climatico antropogenico sono etiche prima che economiche e scientifiche” (146). Vorrei far capire che spiegare e difendere l’importanza di questa affermazione è un primo passo cruciale per dimostrare agli scienziati, agli economisti e ai politici quanto sia importante la filosofia per affrontare il cambiamento climatico globale. Come nota acutamente Jamieson, “L’economia può essere in grado di dirci come raggiungere i nostri obiettivi in modo efficiente, ma non può dirci quali dovrebbero essere i nostri obiettivi e tanto meno se sia opportuno preoccuparci di raggiungerli in modo efficiente” (147). Certamente l’analisi e il vaglio degli scopi ultimi dell’esistenza umana e il suo posto nel cosmo più ampio è stato per millenni un compito centrale della filosofia. Per quasi mezzo secolo gli studiosi di etica ambientale hanno cercato di espandere questa dialettica al fine di includere anche il mondo non umano.

Per riassumere, la mia preoccupazione è che la teoria dell’Antropocene abbracci e avalli un approccio gestionale ai nostri problemi ecologici. È senz’altro vero che tra chi utilizza la teoria dell’Antropocene molti lo fanno col desiderio di invertire i suoi effetti. Ma lasciando indiscusso e persino consacrando geologicamente il dominio umano sulla natura si escludono dal dibattito i cambiamenti necessari per affrontare la crisi. Come fa notare Crist, “Il concetto stesso di Antropocene cristallizza il dominio dell’uomo, inducendo la mente umana già avviata in quella direzione a vedere la nostra identità dominante come il frutto di un destino manifesto, quasi naturale, e in un certo senso formidabile” (Crist 2013, 141).[14] Se vogliamo veramente affrontare le radici delle crisi ecologiche che abbiamo creato, dobbiamo liberarci dall’“autoritratto prometeico” sotteso nella teoria dell’Antropocene. (131)

2. L’ERA ECOZOICA

A quali implicazioni, potremmo ragionevolmente chiederci, conduce il rifiuto della teoria dell’Antropocene? Innanzi tutto rifiutarlo non vuol dire confutare l’affermazione, sostenuta da un considerevole corpus di prove scientifiche, che le attività umane siano collettivamente una forza geologica in grado di plasmare il pianeta. È una realtà che non sembra in discussione. Anzi, seguendo lo storico culturale Thomas Berry (1914–2009), vorrei andare oltre sostenendo che l’impatto collettivo delle attività dell’uomo non porta soltanto alla fine di un’epoca geologica, ma a quella di un’era geologica.[15] Decenni prima che Paul Crutzen parlasse di epoca dell’Antropocene, Berry sosteneva l’opinione che le attività umane non portassero alla conclusione dell’epoca dell’Olocene (cominciata 11.700 anni fa), e neppure alla fine del Periodo Quaternario (iniziato 2.588.000 anni fa). Piuttosto, Berry obietta che stiamo assistendo, e causando, la fine dell’era Cenozoica (che è iniziata 65 milioni e mezzo di anni fa). Il mio scopo nell’introdurre l’affermazione di Berry non è quello di entrare nel dibattito geologico sul quale lo IUGS si deve ancora pronunciare, ma quello di utilizzarla per riconoscere la portata dei cambiamenti che stanno avvenendo, rifiutando al contempo la narrazione antropocentrica che sottende la teoria dell’Antropocene. In un certo senso, ipotizzare quello che avverrà dopo l’“Era Cenozoica terminale” era il principale obiettivo di gran parte della lunga vita di Berry. In effetti, come vedremo, Berry riteneva che tali ipotesi fossero la “Grande Opera” di questa generazione e della successiva. Se questo è vero, i filosofi hanno una parte significativa da svolgere in tale opera.[16]

Berry è convinto che provocando la fine del Cenozoico siamo giunti a un punto critico nella storia della terra. Come fa notare, l’umanità ha di fronte una scelta: o abbracciare un’“insostenibile era Tecnozoica-Industriale” oppure creare le condizioni per la transizione a un’“Era Ecozoica-Organica” (Berry 2015, 60). La somiglianza tra come Berry considera l’era Tecnozoica e la precedente discussione sulla teoria dell’Antropocene è notevole. Il compito dell’era Tecnozoica è quello di estendere il dominio umano sulla terra, poi sul resto del sistema solare e oltre. Benché questa possibilità sembri fantascientifica, è sempre più evidente come molti all’interno delle comunità scientifiche e industriali stiano lavorando attivamente per realizzare questa possibilità.[17] La misura di quanto avanti ci siamo spinti su questa strada mi è apparsa chiara di recente, quando ho partecipato ai Dialoghi di Blumberg sull’Astrobiologia, organizzati in compartecipazione dalla Library of Congress e dalla NASA http://www.loc.gov/today/pr/2015/15-082.html. Nel corso dei dialoghi è emerso con chiarezza il fatto che molti all’interno dell’industria e della scienza stanno attivamente perseguendo un percorso verso la “colonizzazione” del sistema solare. Il devastante retaggio del colonialismo sul nostro pianeta sembrava non essere neppure venuto in mente alla maggior parte degli scienziati e dei membri della NASA che partecipavano ai dialoghi. Allo stesso modo, l’idea che ci dovrebbe essere una qualche forma di revisione etica negli sforzi per scoprire la vita microbica su altri pianeti e interagire con essa – qualcosa, forse, di analogo ai comitati di revisione istituzionale (IRB) o ai comitati istituzionali per la cura e l’utilizzo degli animali (IACUC) – si è scontrata con un misto di resistenza e accettazione di facciata. Questa esperienza ha mostrato con chiarezza che mentre la nostra specie si sposta sempre più verso il resto del sistema solare, portiamo con noi la nostra etica ambientale (o la sua assenza). Al momento la dominante visione antropocentrica del mondo non pone praticamente limiti morali all’uso e allo sfruttamento umano della Terra, del nostro sistema solare e oltre. In contrasto con questa traiettoria tecnozoica, Berry sostiene che l’era ecozoica dovrebbe fondarsi su una nuova narrazione, un nuovo quadro concettuale che solleciti noi umani a ripensare quello che siamo e come siamo correlati al cosmo.

Per come la presenta Berry, la chiave della transizione all’era Ecozoica sta nel fatto che gli uomini si liberino del loro antropocentrismo arrogante e illusorio diventando finalmente parte integrante della comunità terrestre:

Quello che ci vuole è un legame tra tutte le varie forme di vita sul pianeta Terra in una comunità unica, ancorché differenziata. Anche al di là delle forme viventi, urge stabilire una comunità comprensiva di tutte le componenti costitutive del pianeta, quelle geologiche come quelle biologiche. Andando oltre, si sente il bisogno che gli umani riconoscano l’unità dell’universo stesso. A conti fatti la comunità è una sola. Nessuna comunità a qualunque livello può sopravvivere senza fondarsi sull’unità dell’universo. Ogni componente dell’universo è un sottosistema del sistema universo. (Berry 2015, 83)[18]

L’umanità deve cominciare a riconoscere di essere parte di una più ampia comunità di esseri, non separata da essa o dominante rispetto ad essa. In un certo senso, quindi, la chiave per realizzare l’era Ecozoica non sta solo nel fatto che gli esseri umani debbano includere i non umani nella loro comunità morale, ma che debbano riconoscere più fondamentalmente che la comunità degli umani è parte di più ampie comunità planetarie, solari, e cosmiche.

Molti riconosceranno più di una superficiale somiglianza tra la posizione di Berry e l’etica della terra di Aldo Leopold (anche se, per quanto ne so, Berry fa riferimento a Leopold solo di sfuggita e sembra essere arrivato alle sue opinioni indipendentemente da Leopold). Nel suo fondamentale saggio del 1949 “L’etica della terra,” Leopold sostiene che la progressiva espansione della comunità morale è una sorta di evoluzione etica (1949, 202–03). Egli sostiene che la chiave per realizzare lo stadio successivo dell’evoluzione etica è che l’umanità riveda il proprio modo di concepire se stessa e il suo rapporto con la natura. “[Un’]etica della terra trasforma il ruolo dell’Homo sapiens da conquistatore della comunità terrestre a suo semplice membro e cittadino. Questo prevede il rispetto per i suoi compagni, e anche il rispetto della comunità in quanto tale” (204). È, scrive Leopold, una “possibilità evolutiva e una necessità ecologica” il fatto di riconoscere di far parte di una più ampia “comunità biotica” (203). O, come afferma Berry:

Fraintendiamo il nostro ruolo se consideriamo che la nostra missione storica è quella di “civilizzare” o “addomesticare” il pianeta [o il sistema solare!], come se la selvatichezza fosse qualcosa di distruttivo, piuttosto che l’estrema modalità creativa di qualsiasi forma di essere terrestre. Non siamo qui per padroneggiare. Siamo qui per diventare parte integrante della più ampia comunità terrestre. La comunità stessa e ognuno dei suoi membri ha, in definitiva, una componente selvatica, una spontaneità creativa che rappresenta la sua realtà più intima, il suo mistero più profondo. (Berry 2000, 48)

Lo scopo non è diventare più benevoli “gestori” della natura. Non siamo qui per amministrare, controllare, o riparare la natura, ma per diventare “integrali alla più ampia comunità terrestre.” Il concetto di “integrità” o di diventare “integrali” è centrale per questa transizione.[19] La richiesta agli esseri umani a farsi “integrali” è anche sostenuta da Crist, la quale osserva che, “L’integrazione richiede l’accettazione della nostra appartenenza planetaria” (2013, 144):

L’integrazione in un organismo, un ecosistema, una bioregione, una famiglia o una comunità segnala uno stato in cui possono fluire i doni del benessere.

Essere integrali, insieme alla qualità affine del possedere integrità, vuol dire lavorare armoniosamente insieme, migliorarsi e completarsi a vicenda, sostenere il reciproco sviluppo, rispettare identità distinte e confini appropriati, sperimentando l’unione nella diversità. (Crist 2013, 143)

Ancora una volta la compatibilità di questa posizione con l’etica della terra di Leopold è notevole. L’obiettivo è superare la mentalità di conquista e abbracciare un’etica della terra in cui un’attività è giusta nella misura in cui preserva l’integrità, la stabilità e la bellezza della comunità biotica, e sbagliata quando tende ad altro (Leopold 1949, 224). In tal modo, la Grande Opera[20] di questo momento della storia dell’umanità è concepire modalità esistenziali “reciprocamente migliorative” piuttosto che reciprocamente distruttive (Berry 2000, 3; 2015, 97).

Anche se in questa sede non posso fare molto più che segnalarlo, è importante riconoscere che questa transizione all’Era Ecozoica richiede un fondamentale rifiuto della metafisica dualista e riduzionista che per secoli (probabilmente per millenni) ha separato gli umani dal resto della natura, rifiutando di riconoscere il valore intrinseco della natura. Parte di questa realizzazione è legata al riconoscimento che “l’universo è composto da soggetti con cui essere in comunione, non oggetti da sfruttare” (Berry 2015, 38).[21] Contrariamente alla narrazione creata, ad esempio, dalla metafisica moderna, non è vero che la natura si capisce meglio se paragonata a una vasta macchina. [22] Seguendo Alfred North Whitehead, ho sostenuto che la metafora dell’organismo è molto più adeguata a descrivere la realtà rivelata dalla scienza contemporanea. In effetti la “filosofia dell’organismo” di Whitehead è tra i progetti filosofici più ricchi e più ignorati del ventesimo secolo. Prendendo spunto dalle rivoluzioni scientifiche della biologia evolutiva, della teoria della relatività e della meccanica quantistica, Whitehead sviluppa sistematicamente una metafisica che rifiuta fondamentalmente la descrizione meccanicistica della natura come realtà vacua e senza valore in favore di un’ontologia relazionale non-dualistica e non-riduttiva che concepisce l’interdipendenza, il valore, e la bellezza come le caratteristiche più pervasive della realtà.[23] Ogni essere è costituito dalla sua relazione con il tutto ed è un risultato unico di bellezza e valore per sé, per gli altri e per il tutto. Il mio lavoro stesso tenta di sviluppare da questo quadro concettuale una forma di etica kalocentrica o basata sulla bellezza.[24]

In questa sede non è necessario perdersi nei dettagli di una tale posizione, perché ciò che è in gioco è la corretta impostazione del problema. Ciò che Berry, e in certo senso anche Leopold e Crist, vogliono sostenere è che la transizione da un’era Ecozoica comporta da parte degli umani una riconsiderazione di se stessi e della relazione con il più ampio mondo naturale. Non si tratta di inventare una nuova tecnologia o un rinnovato modello economico. Ma non si tratta neppure di “modificare semplicemente qualche aspetto specifico della nostra condotta etica” (Berry 2000, 105). Ciò che occorre è molto più essenziale. “Quello che ci viene richiesto ora è di cambiare gli atteggiamenti così profondamente radicati nei nostri modelli culturali di base che ci appaiono come imperativi della natura stessa del nostro essere, un dettame del nostro codice genetico come specie” (Berry 2000, 105). In un senso molto letterale, quindi, la Grande Opera davanti a noi è nientemeno quella di “reinventare l’umano, a livello di specie, con una riflessione critica, all’interno della comunità dei sistemi di vita, in un contesto di sviluppo temporale, attraverso la storia e l’esperienza di sogni condivisi” (Berry 2000, 159). I filosofi hanno un ruolo critico da svolgere in questa opera.[25]

In conclusione, faccio mio con qualche modifica l’appello appassionato di Leighton affinché i filosofi reagiscano alla più grande minaccia esistenziale della loro epoca: Il cambiamento climatico globale sta emergendo come una delle crisi più importanti della storia della nostra specie. Su di noi insegnanti ricade, credo, una rilevante quota dell’onere di reagire alla crisi. Se la sete del consumo superfluo continua, potremmo trovarci tutti sommersi o estinti. Se i filosofi continuano ad accontentarsi di perseguire l’abitudine gufesca di riflettere solo nella dolce luce crepuscolare della speculazione astratta, ciò che li aspetta è una lunga e terribile nottata. Gran parte della vita sulla Terra è sospesa sul filo del rasoio sopra un abisso. Dire che noi filosofi non abbiamo responsabilità in questa ora di decisioni è un parere da codardi o disperati. Credo che voi, io e noi tutti abbiamo di fronte una sfida: la scelta se sottostare zelanti alla tirannia dell’antropocentrismo o marciare con volontà risoluta verso l’alba di una comunità terrestre in cui tutte le forme di vita sono rispettate: una comunità biotica resa libera.

 

Originalmente pubblicato in inglese sull Midwest Studies in Philosophy, XL (2016)

 

Bibliografia di Riferimento

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Note
  1. Per un elenco di presidenti del passato e dei loro discorsi, si veda http://www.apaonline.org/page=presidents.
  2. Come faccio notare in “La filosofia in tempi di fascismo”: “Sebbene dal nostro punto di vista privilegiato del ventunesimo secolo, può sembrare che la vittoria finale degli Alleati fosse inevitabile, negli ultimi anni Trenta il Giappone aveva invaso la Cina commettendo terribili atrocità, e Hitler e Mussolini erano in marcia attraverso l’Europa. La vittoria finale non era così certa al tempo, e la minaccia esistenziale alla democrazia era palpabile in molti dei discorsi tenuti in quel periodo” (Henning 2015a, 88).
  3. Si vedano in particolare i discorsi di James H. Tufts (Presidente della Divisione del Pacifico 1934–1935), “L’istituzione come agenzia di stabilità e riordinamento in materia di etica”; di E. T. Mitchell (Presidente della Divisione Occidentale 1935–1936), “Gli ideali sociali e la legge”; di J. A. Leighton (Presidente della Divisione Occidentale 1937–1938), “La storia come lotta per i valori sociali”; di Glen R. Morrow (Presidente della Divisione Occidentale 1939–1940), “Platone e la regola della legge”; e di Edward O. Sisson (Presidente della Divisione del Pacifico 1939–1940), “La natura umana e la crisi odierna.” Si noti che la Divisione Occidentale è stata da allora rinominata Divisione Centrale.
  4. Decenni di redditi stagnanti culminati nella Grande Recessione del 2008 rivelano profondi e evidenti problemi strutturali connessi col sistema economico capitalistico globale. Per molti aspetti, proprio come la Grande Depressione può essere vista come una causa primaria della seconda guerra mondiale, è probabile che gli eccessi del capitalismo siano motori primari del cambiamento climatico antropogenico (vedi Klein (2014). Anche Per il bene comune (1989) di Herman E. Daly e John B. Cobb è un’importante risorsa. Philip Cafaro (2010, 2011) è tra i pochissimi filosofi che ha mostrato come sia necessario rinunciare a perseguire la crescita economica. Questo studio condivide quelle posizioni, anche se non entra nel merito del dibattito.
  5. L’opera di Stephen M. Gardiner sul cambiamento climatico considerato come “perfetta tempesta morale” è di grande aiuto per noi (Gardiner 2010). Si veda anche Dale Jamieson (2010, 149): “Ci sono tre importanti direzioni lungo cui variano di paradigma i problemi ambientali globali come quelli connessi al cambiamento climatico: Azioni apparentemente innocenti possono avere conseguenze devastanti; cause e danni possono essere diffusi e cause e danni possono essere remoti nello spazio e nel tempo.”
  6. Una ricerca di parole chiave nei trentasei discorsi presidenziali dal 2003 a oggi rivela tre fuggevoli riferimenti: Nicholas Smith, “Modestia: un resoconto contestuale” (2007–2008 Discorso presidenziale della Divisione del Pacifico (http://www.apaonline.org/global_engine/download.asp?fileid=91467BC7-9407-4D84-B53B-56188A221F01); Linda Martín Alcoff, “Le guerre civili della filosofia” (2012–2013 Discorso presidenziale della Divisione Orientale (http://www.apaonline.org/global_engine/download.asp?fileid=DB5D29E5-9DC5-4D3D-A4BC-3550069C3147); ed Elizabeth Anderson,“Pregiudizio morale e pratiche correttive: una prospettiva pragmatista’’ (2014–2015 Discorso presidenziale della Divisione Centrale (http://www.apaonline.org/global_engine/download.asp?fileid=93FF3C8F-DDF0-4CDE-BDB2-91B5603BE414).
  7. L’inerzia dell’APA contrasta, ad esempio, con l’Accademia Americana di Religione (AAR). Gran parte del convegno annuale dell’AAR nel 2014 era dedicato al tema del cambiamento climatico, ivi compreso un dibattito con l’ex presidente Jimmy Carter sul “Ruolo della religione nel mediare conflitti e immaginare futuri: i casi del cambiamento climatico e della uguaglianza per le donne,” e tavole rotonde con, tra gli altri, l’allora presidente del Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC), Rajendra K. Pachauri, e il fondatore di 350.org, Bill McKibben. Del tutto in tema la prolusione della presidente Laurie Zoloth dedicata all’argomento: “Interrompere la nostra Vita: Un’etica per la tempesta imminente.”
  8. Trovo utile la definizione di quadro concettuale fornita da Karen J. Warren: “Un quadro concettuale è un insieme di convinzioni di base, valori, atteggiamenti e supposizioni che plasmano e riflettono la visione di sé stessi e del mondo. Il quadro concettuale funziona come lente costruita socialmente attraverso cui la realtà viene percepita. È influenzato e forgiato da fattori come il sesso, la razza o l’etnicità, la classe sociale, l’età, l’orientamento affettivo, lo stato civile, la religione, la nazionalità, le influenze coloniali, e la cultura” (Warren 2000, 46, corsivi dell’autrice). Ai fini di questo saggio i termini “narrazione,” “visione del mondo,” “racconto,” e “quadro concettuale” saranno usati in modo perlopiù intercambiabile.
  9. Il termine “Antropocene” fu reso popolare del chimico e premio Nobel Paul Crutzen. Al momento in cui questo saggio andrà in stampa, lo IUGS avrà preso la sua decisione. Per saperne di più, si visiti il loro sito: http://www.iugs.org/. [In realtà una decisione in tal senso non è stata presa. Lo IUGS nel luglio 2018 ha invece optato per l’introduzione di un’altra definizione, quella di “Età Meghalaiana”, tra le critiche dei sostenitori della tesi dell’Antropocene N.d.T.]
  10. John Houghton, fondatore e co-presidente del Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico, fa notare che le variazioni naturali dell’orbita terrestre (chiamate cicli di Milankovich dal matematico serbo che le ha scoperte) finiranno con l’aprire la strada a una nuova era glaciale che porrà fine al temperato Olocene. “Accade che ci troviamo attualmente in un periodo di variazioni relativamente basse della radiazione solare e le migliori proiezioni a lungo termine sono di un periodo interglaciale più lungo del normale che porterà all’inizio di una nuova era glaciale, forse tra 50.000 anni” (Houghton 2009, 87).
  11. “Benvenuti nell’Antropocene,” The Economist, http://www.economist.com/node/18744401
  12. “Per la teoria dell’Antropocene, i nostri effetti intenzionali devono essere razionalizzati e gestiti in modo sostenibile, i nostri involontari effetti negativi devono essere mitigati attraverso la tecnologia, ma le conseguenze storiche del dominio umano non sono passibili di scrutinio critico, tanto meno di abolizione” (Crist 2013, 131).
  13. Per altri dettagli su questo tema si vedano i capitoli 3 e 4 del mio Cavalieri nella tempesta (Henning 2015b).
  14. “La teoria dell’Antropocene offre di noi un autoritratto prometeico: una specie geniale ancorché indisciplinata, che si staglia sullo sfondo della vita meramente vivente, che si innalza tanto da guadagnarsi un nome separato (anthropos, che significa ‘uomo’ e che implica sempre ‘non-animale’), e la cui storia inarrestabile e per molti versi gloriosa … ha restituito un ‘io’ che sta alla pari con le tremende forze della Natura” (Crist 2013, 131)
  15. In ordine discendente di durata, le unità di geocronologia sono queste: Eone, Era, Periodo, Epoca, Età, e Chron.
  16. Nel mio recente libro Cavalieri nella tempesta: L’etica in tempi di cambiamento climatico (Henning 2015b), scritto avendo in mente un pubblico di studenti universitari, sviluppo con maggiore ampiezza molti di questi temi, compresa una discussione dei punti critici della narrazione sulla sostenibilità e sulla “gestione oculata” e il bisogno, da parte di Berry, di un’alternativa più soddisfacente.
  17. Si veda, ad esempio, “Le miniere sugli asteroidi potrebbero diventare realtà entro il 2025,” Mike Wall, Space.com, August 11, 2015 http://www.space.com/30213-asteroid-mining-planetary-resources-2025.html
  18. “In effetti vi è una singola comunità integrale della terra che comprende tutti i suoi componenti sia umani che non umani. In questa comunità ogni essere ha il suo compito da svolgere, la sua dignità, la sua spontaneità interiore. Ogni essere ha la propria voce. Ogni essere dichiara se stesso all’universo intero. Ogni essere entra in comunione con gli altri esseri. Questa capacità di relazione, di presenza rispetto agli altri esseri, di spontaneità nell’azione, è una capacità posseduta da ogni modalità di esistenza attraverso l’universo intero” (Berry 2000, 4).
  19. È degno di nota, in questo contesto, che nella sua recente enciclica papale Laudato Si’ (2015), Papa Francesco affida un ruolo centrale al concetto di “ecologia integrale.” “Un’ecologia integrale è fatta anche di semplici gesti quotidiani nei quali spezziamo la logica della violenza, dello sfruttamento, dell’egoismo. Viceversa, il mondo del consumo esasperato è al tempo stesso il mondo del maltrattamento della vita in ogni sua forma” (166). Si veda il mio “La stewardship e le radici della crisi ecologica: riflessioni sulla Laudato Si” (Henning 2015c).
  20. “Il nostro compito speciale, quello che passeremo ai nostri figli, è quello di gestire l’ardua transizione dal Cenozoico terminale all’emergente Ecozoico, un periodo in cui gli umani saranno presenti sul pianeta come membri attivi di una inclusiva comunità terrestre. Questa è la nostra Grande Opera e l’opera dei nostri figli” (Berry 2000, 7–8).
  21. “Quel futuro può esistere solo quando concepiamo l’universo come composto da soggetti con cui entrare in comunicazione, non come oggetti da sfruttare…. L’intimità col pianeta nella sua meraviglia e bellezza e la piena profondità del suo significato è ciò che permette a un rapporto umano integrale con il pianeta di funzionare. È l’unica possibilità per gli umani di raggiungere la loro vera realizzazione onorando, al contempo, le altre modalità dell’essere terrestre” (Berry 2000, x–xi). Si veda anche Berry 2015, 17–18 e 96.
  22. Per maggiori dettagli in proposito si veda Henning e Scarfe (2013).
  23. Benché non ci fosse nulla di sistematico nell’opera di Berry, a volte egli abbracciava esplicitamente una forma di pansoggettivismo. “Infatti, essendo l’universo una realtà singolare, la coscienza deve, sin dal suo inizio, essere una dimensione della realtà, perfino una dimensione dell’atomo primordiale che porta dentro di sé il destino totale dell’universo” (Berry 2015, 65). Tuttavia, come gran parte del lavoro di Berry, questi brani si interpretano meglio in modo suggestivo che sistematico. Si veda anche, “Per tutta la sua vasta estensione nello spazio e la sua lunga sequenza di trasformazioni nel tempo, l’universo costituisce un singolo evento celebrativo multiforme e sequenziale. Ogni essere nell’universo è intimamente presente ad ogni altro essere nell’universo, influenzandolo” (Berry 2015, 23).
  24. Per saperne di più sull’approccio kalocentrico all’etica, si veda Henning (2005, 2009). Sto attualmente lavorando a una nuova monografia su quella che si potrebbe chiamare “metafisica ambientale”, che estende ed espande quel precedente lavoro.
  25. Non solo i filosofi dovrebbero impegnarsi di più nell’affrontare il cambiamento climatico, ma dovrebbero essere coinvolte anche voci filosofiche più diverse. Ad esempio, a dispetto di più di quarant’anni di lavori accademici che sviluppano approcci biocentrici ed ecocentrici all’etica ambientale, pochissime raccolte di saggi sull’etica del clima includono tali prospettive. Per esempio il volume della Oxford del 2010, Etica del clima: letture essenziali, curato da Stephen M. Gardiner, Simon Caney, Dale Jamieson e Henry Shue, non sembra includere alcun approccio biocentrico o ecocentrico. Per contro, invece, L’etica del cambiamento climatico globale, pubblicato da Cambridge e curato da Denis G. Arnold, include un saggio di Clare Palmer, “È importante la natura? Il posto dei nonumani nell’etica del cambiamento climatico.” Si spera che ciò rappresenti un segnale della tendenza verso analisi più equilibrate rispetto all’etica dei cambiamenti climatici.
About the Author

Brian G. Henning

Brian G. Henning is Professor of Philosophy and Environmental Studies at Gonzaga University in Spokane, WA and is the Executive Editor of the Edinburgh Critical Edition of the Complete Works of Alfred North Whitehead. His research includes thirty articles or anthology chapters, three books, and four co-edited volumes. His 2005 book, The Ethics of Creativity, won the Findlay Book Prize from the Metaphysical Society of America. His most recent book is Riders in the Storm: Ethics in an Age of Climate Change. connect.gonzaga.edu/henning