Excerpt from Suppose It Begins Here

In Creativity by Magda Bogin

Photo credit: Alessandra Capodacqua

1.

 

Josette dice che dovrei affidarmi a Dio. Sa che non sono religiosa, ma vorrebbe che mi ravvedessi. È per il tuo bene, dice. È convinta che soffra di manie. Di grandezza? Mettiamola così, Madame Rose. Un evento del genere può solo essere opera di Dio, non certo di un uomo. Lasciamo che sia Lui a sopportarne il peso, Madame Rose.

M’immagino io e Lui che coltiviamo la terra fianco a fianco, le bon Dieu et moi, bestie da soma aggiogate allo stesso aratro. Il lavoro è estenuante, e mi sento scivolare nella terra scura. All’improvviso il peso si sposta sulle spalle del Signore. Appaiono angeli dal nulla. Squillano le trombe. Un coro canta la Marsigliese: “Allons enfants de la patrie….

Dev’essere fantastico avere una fede simile. Josette crede sul serio che ci sia un vecchio con la barba che ci sorveglia da dietro le nuvole – uno come Santa Claus, credo, ma meno gioviale e più arcigno. Se è per questo, anche mia madre la pensava così, benché il dio che pregava lei fosse più saggio e meno semplice da blandire di quello francese. Devo dire che perfino da bambina mi pareva assurdo che la gente parlasse con tanta sicurezza di qualcosa che non aveva mai visto. Guardando il cielo notturno attraverso il tetto di paglia, o dal cortile gelato quando uscivo la notte per usare il casottino, ero abbagliata da mille stelle. Ma Lui dov’è? chiedevo, e la mamma indicava ancora più in alto mentre, strizzando gli occhi, superavo con lo sguardo Orione, Cassiopea, attraversavo la Via Lattea fino a qualcosa che vedeva solo lei.

Qui a Clos-les-Vignes, dove il cielo è tanto più grande, nella notte si disegnano ancora le costellazioni, isosceli e strane – segnali che arrivano da qualche regno remoto. Ma Dio? Non ho mai capito cosa intendesse la gente con quella parola. È così anche per l’amore. Desiderato? Certo! Trovato? Una volta sola. Creduto? Come facevo a non crederci? Ormai non mi sorprende più che le cose siano andate altrimenti, o che abbia vissuto senza le consolazioni che permettono ai miei connazionali di sentirsi a proprio agio con se stessi. Tuttavia, ricordo che avrei voluto sapere che effetto avrebbe fatto poter contare sulla più semplice felicità, volendo condividere, anche solo per un minuto, la condizione generale, così come mi sarebbe piaciuto avere un olfatto più fine.

A questo proposito, vivendo sopra Le Bon Four, ho avuto occasione di rallegrarmi che l’intero mondo aromatico mi sfuggisse del tutto. Che si mangia per cena? Chiedo a Josette che risponde una cosa, ma me ne serve un’altra. Le piace prendermi in giro. Porto i pasti di sotto, e lei lo sa che non so distinguere la trippa dalle quaglie, a meno che non mi vengano sbattute in faccia. Ma non è una critica verso Josette. È la mia padrona di casa da più di vent’anni, e la conosco da prima che vedesse la luce del giorno.

All’apparenza, nell’ultimo mese non è cambiato nulla. Pranzo sempre a mezzogiorno, come tutti gli altri. Per tutti questi anni mi sono sempre seduta allo stesso tavolo, sul davanti, lungo la parete con l’orologio di legno scolpito e i disegni della Provenza. Mi piace guardare la piazza, osservare il sole obliquo che si muove lento lungo Rue de l’Échafaud. La sera mi metto al tavolino accanto alla cucina, di fronte al ritratto di Thérèse col vestito rosso. Cerco di mangiare alle sette, perché voglio tornare in camera in tempo per guardare le notizie della sera. François mi accompagna sempre di sopra, dopo il dessert. Aspetta finché non ho girato la chiave nella toppa e mi guarda entrare prima di tornare di sotto. Devo dire che lo trovo piuttosto commovente. Negli ultimi tempi mi è parso ancora più protettivo. Sembra quasi che abbia un interesse esclusivo nei confronti di quello che faccio. François e Josette sono gli unici che sanno che lavoro alla mia deposizione.

Josette dice che non sembro soffrire per le conseguenze del mio cosiddetto “atto”. Perché non accettare che è stato solo un terribile incidente, dice, ed essere grata di essere ancora viva?

Io sono grata.

Quello che lei non capisce è il mio bisogno di mettere in chiaro le cose.

A me sembra ieri, ma non è rimasta neppure un’anima a ricordare il giorno in cui ho messo piede per la prima volta a Clos-les-Vignes. Pochi dei bambini sono ancora qui – la sorella di François, Anne, che gestisce la boulangerie della porta accanto; Denise e Albert Roy, proprietari del Provençal, l’unico altro ristorante del paese; Jean-Luc, il povero fratello demente di Josette, che ciondola da una piazza all’altra con un sorrisetto stampato in faccia; Alain Blanchard, il maestro di scuola, che ha sposato Ninon, la più giovane delle due sorelle Boguine; e ovviamente Josette e François – ma stanno tutti invecchiando. Io ho l’età che avrebbero i loro genitori se fossero ancora vivi. Figuriamoci. Siamo rimasti davvero in pochi. La mia amica Pierrette, che si è trasferita qui appena prima della guerra, ha da poco superato gli ottanta, stessa cosa per Sidonie e Amélie. Io sono la più vecchia di tutte, ma dentro al cuore mi sento giovane come una scolaretta. Riesco a contare all’indietro a partire dal sette e so chi è il presidente – quell’ipocrita faccia di bronzo dal nome che comincia per M. Ciò nonostante, so che l’età avanza.

Non ho uno specchio a figura intera, ma se lo avessi penso che vedrei una vegliarda piegata come un fuscello. Ai turisti americani o agli intrusi da Parigi o da Amsterdam che hanno comprato tutto quello che si vede, devo sembrare una di quelle antiche figurine in espadrilles che si fondono nel paesaggio come lucertole su un muro di pietra imbiancato. Con lo chignon bianco, il grembiule a fiori e il vestito blu scuro, faccio la mia figura, lo so. Mi sono fatta fare la foto più di una volta nell’atto di annaffiare i gerani sul davanzale. Click – e mi ritrovo come cartolina, o nell’album di foto di qualcuno, insieme a un campo di lavanda: “Vecchia signora in Provenza.”

A volte quasi dimentico io stessa che ho vissuto fuori da queste colline brulle e scoscese. Trovo sempre più difficile credere che ci sia mai stato qualcos’altro oltre questo cielo azzurro invetriato, questi muri cotti dal sole, gli alberi frondosi e ramificati che riempiono la mia piazzetta. I pensieri del passato mi ritornano in mente come un sogno: mia madre, lo shtetl, i vecchi ammazzati perché avevano la barba, il modo in cui il cuore si è fermato quando ho incontrato per la prima volta Jacques. Jacques? Non penso mai a lui. Be’, sì –ultimamente, con tutti gli anniversari, di tanto in tanto un flebile nastro di ricordo mi si è arricciato nella mente. Al piano di sotto, con la televisione a tutto volume, suonano le canzoni che sentivamo noi, e un paio di volte mi sono svegliata nel sonno e ho trovato la camicia da notte zuppa di sudore.

*

È passato un mese dall’incendio e non sono ancora uscita. Giù nel ristorante, ho sentito la gente sussurrare: “Madame Rose non è più lei.” Come potrei esserlo? Ho pensato che almeno Josette e François mi avrebbero difeso, ma curiosamente sono rimasti zitti. Comincio a credere che siano come tutti gli altri anche loro. La notte scorsa ero su in camera a guardare le notizie quando Josette mi ha bussato alla porta. Viene spesso di sopra dopo aver servito l’ultimo giro di caffè e dessert; lasciando François a chiacchierare al bar. Era in ottima forma, gaia e piena di energia dopo tutte quelle ore in piedi, coi capelli ancora belli fatti, ogni ciocca bionda perfettamente a posto. Ero incollata alle immagini dei carri armati nelle strade di Mosca, ma Josette non ci ha fatto caso. “Ça va, Madame Rose?”. Dopo tutti questi anni, mi chiama ancora Madame – in segno di rispetto, suppongo, benché mi dia del tu. “Tu sais,” ha detto chinandosi verso di me. Ho pensato che si stesse preparando a darmi il bacio della buonanotte, come fa qualche volta. “Io e François siamo andati a parlare con un gérontologue ad Avignone questo pomeriggio… ,” mi ha guardato con aria intenta, come se potessi non capire, “…il tipo di dottore che cura… ” ho capito che stava cercando un’espressione delicata, “…quelli della Terza Età. E ci chiedevamo se avessi per caso sentito parlare della… ?” Dicendo “…la maladie d’Alzheimer“ ha farfugliato e questo va a suo onore. Certo che ne avevo sentito parlare – come poteva essere altrimenti? –, ma non volevo darle soddisfazione. Non mi va di essere umiliata.

Il fatto è che ho sempre avuto una memoria fotografica. “A Rose non sfugge nulla,” diceva mia madre, ed era vero. La mente è sempre stato il mio maggior tesoro. Certo che non ci si può ricordare subito di tutto. Interi pezzi di passato si sfaldano per poi scivolare in una specie di limbo, sospeso tra ricordo e oblio. È una cosa ingegnosa, come se la natura avesse concepito l’archivio perfetto. I dati ci sono se ti servono, ma non ci sono se non ti servono, come alla Bibliothèque Nationale.

Ahimè, il mio problema attuale non ha alcuna somiglianza con tutto ciò. A quanto pare ho davvero dimenticato o, più caritatevolmente, non sono in grado di ricordare, sei ore fondamentali della mia vita. Sei ore nelle quali, apparentemente capisco che nessuno mi crederà – , ho messo in pratica… come dire? Sperimentato… realizzato… una forma di giustizia divina. “Elle est complètement gaga,” ha detto l’assistente sociale. Lo ha detto proprio di fronte a me, come se non ci fossi: completamente rimbambita.

Preferiscono considerarmi il prodotto dell’inclemenza dell’età piuttosto che prestar fede alle mie parole. L’unico modo di provare che hanno torto è costruire un caso assolutamente convincente.

In cuor mio so che sono capace di tutto quello che sostengo. Ma non è una prova. Devo stabilire i nessi di causa ed effetto.

Dicono che quando stai per morire l’intera vita ti scorra davanti. Niente di tutto ciò mi è successo quando è scoppiato l’incendio – almeno nulla che io ricordi. Perfino adesso è tutto indistinto, come se la mia mente fosse piena di fumo o caligine. Ammetto che alcuni pezzi di storia mancano ancora, ma non avrei acconsentito a preparare la mia versione dei fatti, ancorché incompleta, se non fossi stata certa che ne sarebbe emerso un resoconto completo.

Sappiamo tutti che i ricordi si possono recuperare; sappiamo che i fatti che sfuggono possono, col tempo, tornare. Ecco da dove mi deriva la mancanza di esitazione iniziale, la mia volontà di impegnarmi a beneficio dei… come chiamarli? Posteri suona troppo pomposo. La verità? Diciamolo con più modestia: la mia complicità. Il mio destino.

© Magda Bogin 2017

About the Author

Magda Bogin

Magda Bogin è nata a New York dove vive. Ha fondato ed è la direttrice di “Under the volcano: an international program of writing master classes” che ha luogo ogni gennaio a Tepoztlán in Messico. Romanziera, traduttrice, poetessa e librettista ha insegnato nei programmi di scrittura di Columbia, Princeton e City College, CUNY ed è l'editor di “El Diario/La Prensa”, quotidiano newyorchese in lingua spagnola. É autrice dei romanzi Natalya, God’s Messenger (Scribner) e Suppose It Begins Here (in uscita).