Ho conosciuto un sarago che abitava in via Saragozza. Era alto più di due metri, portava occhiali tondi con la montatura leggera, dorata, sopra i labbroni aveva due baffetti neri tagliati corti e arricciati, alla Dalì. Io stavo in via Capramozza, una piccola traversa di quella strada.
Era un giovedì pomeriggio di metà primavera e come ogni giorno rincasavo dal lavoro con l’autobus numero 21. Quando salii in piazza Costituzione il mezzo era al solito sovraffollato. Dopo alcune fermate si liberò un posto dietro di me e sedendomi mi trovai accanto a lui. Non passava inosservato: vestiva come un signore d’altri tempi, camicia bianca ben stirata, gilet e giacca marrone, un papillon verde bottiglia. Aveva perfino un bastone all’antica, di legno scuro con il manico placcato in argento, che teneva perfettamente in verticale tra i suoi piedi per evitare di fare inciampare qualcuno.
Avevo i miei pensieri per la testa, e non prestai attenzione più del dovuto a questo bizzarro passeggero, che emanava un piacevole profumo dai toni speziati.
Notai un uomo seduto davanti a noi che fissava insistentemente il mio vicino di posto, le sue mani e il suo volto davano segni di grande turbamento. Lo tenni d’occhio curioso di capire che cosa lo stesse agitando tanto. L’uomo si alzò dal sedile e si avvicinò al sarago. Si dovette chinare appena per arrivare a parlare sottovoce vicino alle sue orecchie: “Sono un medico… un veterinario. È sicuro di stare bene… qui… fuori dall’acqua? Non ha per caso dei problemi respiratori?”
Senza preoccuparmi di sembrare indiscreto mi voltai per vedere la reazione del mio vicino. La cosa mi stava prendendo. Il sarago sembrava stupito che qualcuno gli desse da dire. “La ringrazio infinitamente per la sua premura, signore,” disse con un tono sommesso, “ma non si deve preoccupare per me. Vivo ormai da tre mesi a Bologna, e nonostante l’aria non sia delle migliori non ho mai avuto respiratori, a parte un episodio di tosse di poco conto.”
Il veterinario si agitò ancora di più. “Ma… e le branchie? E l’evoluzione? Capisce… il genere… la specie a cui appartiene non…”
“Che vuole, signore? L’acqua ormai è irrespirabile ovunque. Perfino i pesci di lago hanno ormai la pancia piena di plastica, e talvolta muoiono giovani nei modi più orrendi, come quelli di mare. Io, come del resto molti altri, ho preferito andarmene dal luogo dove sono nato, trasferirmi, e adattarmi alle nuove condizioni. Chiedo scusa, ma devo prepararmi a scendere. Con permesso.”
Fece per alzarsi e l’uomo restò a fissarlo in preda a una grande confusione.
Era la mia stessa fermata. Alzandomi vidi che il sarago era in grave difficoltà: aveva tre buste della spesa da trasportare, e tra le pinne e il bastone non riusciva a organizzarsi. Faceva goffi tentativi di afferrare tutto saldamente senza successo e di quel passo sarebbe rimasto sull’autobus fino al capolinea.
Mi proposi di aiutarlo, mi lanciò uno sguardo grato. Scendemmo appena in tempo mentre le porte si chiudevano dietro di noi.
“La ringrazio, per fortuna si incontrano continuamente persone gentili. C’è anche chi è infastidito dalla mia condizione, ma non bisogna farci troppo caso. Lasci pure le buste a terra, adesso ce la posso fare.”
Non volevo rivedere la scena imbarazzante delle pinne, le buste e il bastone, così lo accompagnai fino a casa. Arrivati al portone insistette perché entrassi a bere qualcosa.
Stava all’ultimo piano di un palazzo senza ascensore. L’appartamento era piccolo, ma aveva un soggiorno molto spazioso, con due finestre affacciate una sulla città e una sulle colline. Mi invitò a prendere posto sul divano mentre sistemava i freschi nel frigorifero.
“C’è una vista splendida da queste finestre.”
“Sono molto fortunato. Appena arrivato a Bologna stavo in un triste seminterrato con altre due persone come me in condizioni precarie. Poi sulla vetrina dal fornaio ho visto un annuncio e grazie al cielo ho trovato questa sistemazione. Caffè o tè? O preferisce forse un whisky, o un amaro?”
“Caffè, grazie.”
Si sedette sulla poltrona davanti a me e bevemmo in silenzio un caffè decisamente troppo annacquato.
“Mi scusi se torno sull’argomento,” iniziai dopo avere vuotato a fatica la tazza. “Sull’autobus ha detto che anche i pesci di lago hanno la pancia piena di plastica. Pensavo che i laghi non fossero inquinati come il mare.”
“Ormai anche i laghi sono per noi letali. Non solo per via di tutto quello che viene scaricato nei fiumi. Il problema è che la plastica evapora. Quella che finisce nel mare si sminuzza in frammenti microscopici, che noi pesci di mare mangiamo. E quelli che non mangiamo diventano ancora più piccoli, al punto che le particelle sintetiche evaporano insieme al vapore e vanno a gonfiare le nuvole. Poi ricadono con la pioggia chissà dove. Non c’è più un centimetro di mondo che non sia ricoperto da questa sciagura. Anche gli abitanti dei più alti laghi di montagna, dove i villeggianti vanno a cercare un contatto autentico con la natura, sono condannati a una vita da malati.”
Annuii gravemente. Condividevo in linea di massima la sua angoscia, ma non ero affatto persuaso del fatto che i frammenti di plastica possano evaporare. Mi sembrava una stupidaggine colossale ma evitai di contraddirlo, per educazione.
Ci salutammo alludendo al fatto che ci saremmo incontrati di nuovo sulla linea 21. Continuai ad avere tra i pensieri il sarago fino a sera. Nei giorni seguenti non lo incontrai e non ripensai a questo incontro finché, un paio di settimane dopo, passando davanti al giornalaio, lessi un titolone sulla civetta del quotidiano locale che mi lasciò di sasso: “Sarago dirotta un autobus di linea. Arrestato.”
Comprai il giornale, lo sfogliai freneticamente in cerca di dettagli. C’era una foto scattata durante l’arresto, ma era molto sfocata e confusa e non si riconoscevano i tratti del sarago. Ma era certamente lui, non avevo dubbi. L’articolo riportava le testimonianze e i commenti di alcuni presenti: “abbiamo avuto paura di morire”, “qualcuno ha cercato di fermarlo”, “diceva cose farneticanti sulla civiltà occidentale”, “dopo aver obbligato l’autista a scendere e preso il controllo del mezzo si è lentamente accasciato sul volante”, “l’autobus ha finito la corsa senza che nessuno si facesse male”. A parte questi particolari, non si diceva niente sulle possibili motivazione di un gesto tanto sconsiderato. Ripensai all’abbigliamento elegante del sarago, ai suoi modi gentili, al suo conversare forbito, il giorno in cui lo avevo incontrato. Ero sconvolto. Non poteva essere stato che un raptus, o al limite un gesto dimostrativo dettato da una sofferenza profonda che non mi aveva fatto intuire.
Nel periodo seguente seguii assiduamente la stampa locale, ma non trovai alcun riferimento. Riuscii a sapere soltanto da un trafiletto di poche righe che era stato rinchiuso nel carcere cittadino, in isolamento, in attesa del processo con rito abbreviato.
Non mi davo pace. Avrei voluto incontrarlo di nuovo, parlarci, fargli delle domande. Arrivai a informarmi con la direzione del carcere se si potesse andare a trovare il detenuto, ma mi risposero che al momento non era possibile.
Poi non seppi più niente e non feci più alcun tentativo, e alla fine l’assillo mi passò e quel sarago mi uscì del tutto di mente.
Era appena finita l’estate, si riprendeva col tran tran lavorativo, quando scoprii per caso, guardando il televideo, che il sarago era stato rimpatriato dove si supponeva che fosse nato, in un punto del Mar Tirreno presso il litorale cagliaritano.
Da quella volta, di tanto in tanto, mi dico che un giorno prenderò il traghetto e lo andrò a cercare.
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